Zuppe, patine, pane, garum: viaggio nei sapori dell’antica Roma

A Villa Campolieto, presso Ercolano, una mostra, “Dall’uovo alle mele”, ricostruisce i piatti principali della civiltà latina

Nella raffinata cornice di Villa Campolieto, la mostra “Dall’uovo alle mele” restituisce vita e voce alla quotidianità alimentare dell’antica Ercolano. Reperti organici eccezionali, utensili da cucina e testimonianze letterarie ricompongono un affresco vivido della tavola romana: un luogo di cultura, piacere e identità. Da qui prende spunto un viaggio tra i cinque cibi più emblematici del mondo romano, ancora sorprendentemente vicini ai nostri gusti.

Il titolo stesso della mostra – tratto dall’espressione oraziana ab ovo usque ad mala, “dall’uovo alle mele” – evoca l’ordine rituale del pasto romano, che iniziava con le uova e si concludeva con la frutta. Un’intera civiltà si rifletteva nella tavola, dalla preparazione alla condivisione. Ed è proprio questa stratificazione culturale che rivive nei sapori, nei gesti e nei piatti che ancora oggi possiamo riconoscere.

Garum: il sapore dell’Impero

Garum: il sapore dell’Impero. Mostra “Dall’uovo alle mele”. Foto @ Villa Campolieto, presso Ercolano

Il garum era la quintessenza del gusto romano. Una salsa ottenuta dalla fermentazione di interiora e pesce azzurro sotto sale, lasciata riposare per settimane al sole, poi filtrata e imbottigliata. Si trattava di un condimento universale, presente in quasi tutte le ricette: carni, verdure, legumi, perfino dolci. Un ingrediente dal sapore intenso e saporito che dava profondità e complessità ai piatti.

Prodotto in grandi quantità nelle regioni costiere dell’Impero, soprattutto nella Penisola Iberica e nel Nord Africa, il garum era un bene commerciato su vasta scala. Le anfore marchiate con il nome del produttore arrivavano a Roma come oggi arrivano le bottiglie di olio o di vino pregiato. Alcune qualità erano raffinate, adatte ai palati più ricchi; altre, più forti, venivano consumate dal popolo.

Plinio il Vecchio lo cita con reverenza e Apicio lo usa quasi ovunque. Il garum era l’anima invisibile della cucina romana, una sorta di “colatura dell’antichità” che ancora oggi rivive in alcuni prodotti artigianali del Sud Italia.

Panis: il pane, simbolo di civiltà

Panis: il pane, simbolo di civiltà. Mostra “Dall’uovo alle mele”. Foto @ Villa Campolieto, presso Ercolano

Insieme al garum, il pane è forse il cibo che più di ogni altro rappresenta la continuità tra mondo romano e cultura occidentale. Nell’antica Roma era onnipresente, prodotto nei forni pubblici e venduto quotidianamente. Le forme erano diverse, ma la più celebre è il panis quadratus, ritrovato carbonizzato a Pompei ed Ercolano, con il caratteristico taglio a spicchi sulla superficie.

La panificazione era un’arte quotidiana e un’attività commerciale strutturata. A Roma, i fornai (pistores) erano numerosi e organizzati in corporazioni. Il pane era spesso arricchito con miele, semi, formaggio o olive, e accompagnava ogni pasto. Esistevano anche varianti raffinate per le classi abbienti e tipi più rustici per la plebe.

Al di là della nutrizione, il pane era carico di valore simbolico: offerto agli dei, portato in dono, utilizzato nei rituali religiosi. 

Puls: la zuppa originaria

Puls: la zuppa originaria. Mostra “Dall’uovo alle mele”. Foto @ Villa Campolieto, presso Ercolano

Se il pane rappresenta la stabilità dell’Impero maturo, la puls è la memoria delle origini. Si trattava di una pappa densa preparata con farro o altri cereali bolliti, a cui si potevano aggiungere legumi, verdure, formaggi o pezzetti di carne. Era il piatto base della Roma arcaica, semplice, nutriente e democratico.

I soldati la mangiavano nei campi, i contadini nelle campagne. Era la colonna vertebrale dell’alimentazione prima della diffusione del pane lievitato. Plinio la cita con orgoglio come esempio della sobrietà romana, contrapposta al lusso delle nuove mode orientali.

Oggi la puls è poco più che un ricordo, ma ne sopravvivono i discendenti: le minestre di grano, le zuppe contadine, le vellutate di cereali che tornano nelle nostre cucine come simbolo di benessere e naturalità. Un cibo umile, ma profondamente identitario. 

Patinae: l’arte della stratificazione

Patinae: l’arte della stratificazione. Mostra “Dall’uovo alle mele”. Foto @ Villa Campolieto, presso Ercolano

Le patinae erano piatti cotti in teglia, simili a sformati o timballi, e rappresentavano una delle espressioni più complesse della cucina romana. Apicio ne descrive numerose versioni: con pesce, con carne tritata, con frutta, latte, uova e vino. Erano piatti da banchetto, sofisticati, serviti durante i convivia per stupire gli ospiti.

Una patina de piris, a base di pere, vino passito e pepe, poteva affiancare una patina de piscibus con spezie orientali e salsa di garum. In alcuni casi, la preparazione era multistrata, con alternanza di ingredienti diversi, quasi a costruire un paesaggio gastronomico.

È difficile non pensare alle lasagne, ai timballi, ai pasticci moderni. La patina, con la sua struttura modulare, è l’antenata delle preparazioni complesse della cucina italiana: un piatto che non si limita a nutrire, ma racconta un’idea di forma, estetica e misura. 

Frutta secca e miele: la dolcezza naturale

Frutta secca e miele: la dolcezza naturale. Mostra “Dall’uovo alle mele”. Foto @ Villa Campolieto, presso Ercolano

In assenza di zucchero, il miele era l’elemento dolcificante per eccellenza. I Romani lo utilizzavano in tutti i momenti del pasto: nel vino caldo (mulsum), nelle salse, nei piatti agrodolci, nei dolci veri e propri. La frutta secca – datteri, fichi, noci, mandorle – era consumata fresca, cotta o mescolata con latticini e miele.

I dolci romani erano più sobri dei nostri, ma non meno raffinati. Si preparavano globuli (frittelle immerse nel miele), savillum (una sorta di cheesecake con formaggio, farina e uova), e piccole focacce con semi di papavero e miele. Il sapore era intenso, aromatico, spesso speziato.

Il fine pasto romano era quindi leggero e simbolico: la frutta chiudeva il banchetto, ricollegando il cibo alla natura e alla ciclicità della vita. Proprio da qui deriva l’espressione “alle mele”, che conclude il celebre detto oraziano.