La Pulce nell’orecchio di Carmelo Rifici: il macello amoroso di Feydeau nella camera del gioco e del sangue

Un testo da teatro boulevardier trasformato in una carcassa di commedia feroce e disperata

Eccoli. Eccoli, i poveri corpi borghesi. Gonfi, sfatti. Malati. Eppure, ancora capaci di correre, sbraitare, inciampare e alzarsi, di nuovo. Eccoli che scattano, si scontrano, si urlano addosso parole che sono sputi, gorgogli, spasimi d’amore e fiele di tradimento. Eccoli, già dannati, ma ancora vivi. Vivi, sì. Fino allo spasimo. Siamo al Teatro Vascello, e qui si è visto un teatro che non arretra, che non edulcora, che non sconta niente. Carmelo Rifici, con Tindaro Granata al fianco, scava le budella di La pulce nell’orecchio di Georges Feydeau, e ce le spiattella lì, vive, calde, viscide, sulla pedana di questo teatraccio di battaglia. E che battaglia!

Non una commedia, questa. Non un vaudeville, no. Ma un massacro comico, un macello amoroso. Una carneficina di corna e sospetti, di letti sfondati e orecchie rosse. La borghesia qui non ride: grida. Non sghignazza: si sgola. E i loro crani sembrano tamburi sgonfi, e i loro occhi, palline sbilenche di vetro. Raimonda (Marta Malvestiti), regina di sospetto e padrona del tormento, è lei che accende il fuoco, che sparge la polvere sottile della gelosia. Il marito, Vittorio Emanuele (Christian La Rosa), è un’anima smunta, cascata in un’imboscata di lenzuoli e stanze luride. Ma chi è più lurido? Lui che si difende? Lei che accusa? O tutti e due, stretti nella melma che Feydeau, come un santo col bisturi, incide senza pietà?

La scena, disegnata da Guido Buganza, è una camera da letto dilatata, un confessionale disfatto. Materassi gonfi come budella, cubi di gommapiuma che sono viscere di una casa che ingoia e sputa fuori corpi disfatti, impastati di sudore e saliva. E sopra tutto questo, il gioco. Un gioco feroce, disperato. Gli attori, marionette a cui sono stati strappati i fili, si dimenano come bestie al macello. E corrono, si schiantano, spariscono e ritornano. Francesca Osso, Luciana di carne e di furbizia, ride mentre lancia i dadi di un destino truccato. Tindaro Granata, che incarna Camillo con il palato di latta, è una maschera tragica, che inciampa e si rialza, che balbetta e canta, che ride e poi si sfianca, fino a farsi cosa, fantoccio.

Ecco. Il corpo. Il corpo teatrale. Il corpo degli attori che si sporca, che si offre. Giusto Cucchiarini, Alfonso De Vreese, Giulia Heathfield Di Renzi, Ugo Fiore, Marco Mavaracchio, Alberto Pirazzini, Emilia Tiburzi e Carlotta Viscovo: sono loro che reggono questa carcassa di commedia, che la portano a spalla come un Cristo morto, e che poi la fanno esplodere come un fuoco d’artificio marcio e dolcissimo. Margherita Baldoni li veste con colori strappati, con abiti che sembrano rubati ai morti, e le luci di Alessandro Verazzi li accendono e li spengono come lumini in una veglia funebre. Le musiche di Zeno Gabaglio, fatte di cigolii, rumori, strumenti da bambini pazzi, spingono questo circo alla vertigine.

E il pubblico del Vascello? Che dire. Si siede all’inizio, composto, si stringe nelle giacche, sussurra. Poi si ritrova risucchiato. Prima ride. Poi scoppia. Alla fine resta. Immobile. Zitto. Qualcuno applaude. Ma molti restano lì, gli occhi sbarrati, le mani fredde. Non sanno se si deve ridere o piangere. E non sanno se si può tornare a casa, dopo, a dormire. Questa è la Pulce di Rifici. Non punge. Morde. Strappa. Ti lascia nudo, nudo come una bestia in mezzo alla strada.

E questo, sì, è teatro. Teatro che fa male, che fa bene. Teatro che fa vivere.