Sergio Rubini: “Fare l’attore significa aprire porte nascoste dentro se stessi”

Premiato ad Attorstudio – Milazzo Film Festival con l’Exellence Acting Award, l’attore e regista ha incantato la platea del teatro Trifiletti

Il compito degli attori è quello di trovare dentro loro stessi parti dei personaggi che devono interpretare. Questa operazione di ricerca equivale all’apertura di porte. È come se aprissimo delle porte dentro di noi. E una volta aperte quelle porte, è chiaro che noi sappiamo di avere dentro di noi anche quel criminale, quel santo e così via. Queste porte, delle volte rischiano di rimanere aperte, anche perché delle volte ciò è dovuto anche al successo che può conferirti un personaggio: se tu sei stato amato perché hai fatto un certo personaggio, quella identità finisce anche per far parte stabilmente, in qualche modo, di te. Gli attori, spesso e volentieri, hanno anche un rapporto con l’identità molto labile. Quando si dice che quel personaggio ti è rimasto addosso: vai in giro nel mondo e continui a fare quel personaggio. Anche perché sai che quel personaggio è piaciuto e quindi, magari, per continuare ad essere amato, ti porti dietro un po’ quel personaggio lì. Insomma, è un mestiere rischioso, quello dell’attore: vischioso e rischioso”

“In che modo il fatto di essere diventato regista ha condizionato o influenzato la mia attività di attore? Innanzitutto ho capito che quando gli attori pensano di far bene, fanno male. Lavorando su me stesso in Moviola, ho capito che, quando vai poi a cercare quello che fanno gli attori, cerchi, come è normale che sia, non la perfezione, ma l’imperfezione. Perché la realtà è imperfetta, è sgrammaticata, è aritmica. Un attore, quando pensa di far bene, dice ‘ho fatto tutto bene, ho detto la battuta bene, l’ho detta in quel modo, ho messo tutto a posto’. Nel momento in cui tu hai la sensazione di mettere tutto a posto, stai in realtà facendo qualcosa che ha a che fare un po’ con la scrittura su un pentagramma, mentre, quando poi vai in moviola, cercando la verità, cerchi invece tutto ciò che non ha a che fare col pentagramma, tutto ciò che invece è aritmico e sgrammaticato. E questo mi ha molto aiutato, mi ha messo in guardia da quella voglia che gli attori hanno di ‘fare tutto bene’. Eh no, forse proprio perché hai fatto tutto bene, hai fatto tutto male, perché mancava la verità. Quindi. Fare il regista ha molto cambiato, il mio rapporto con gli attori, con me attore e anche con gli attori, con ciò che chiedo agli attori quando lavorano con me. Peraltro, passare dietro la macchina da presa, per me, ha coinciso con un movimento verso una idea più vicina al realismo, del mio lavoro. Io mi sono ritrovato a cercare un teatro molto realistico all’inizio degli anni ‘80, dopo aver avuto una fascinazione per il teatro di Carmelo Bene e per quel tipo di avanguardia. Tant’è che, quando Fellini venne a vedere il mio primo spettacolo teatrale importante, che era appunto La Stazione, mi disse ‘ma questo non è realismo, è verismo’, perché appunto, diciamo, mi importava la verità. Però, ogni volta che uscivo dalle quinte, provavo una grandissima frustrazione, perché avevo la sensazione di essere su un palcoscenico dove tutto non era vero, era solo finzione scenografica. Il cinema, invece, un po’ soddisfaceva più quella mia esigenza di realtà a tutti i costi, per cui, in qualche modo, ho iniziato ad amare più il cinema del teatro. 

“Del resto, quando sono arrivato io, nel cinema italiano, c’era un po’ un deserto, lasciato dagli anni 80, e in quel momento c’è stato qualcuno che ha ricominciato. Noi abbiamo avuto questa nostra grande storia del neorealismo, che però ha creato un grandissimo equivoco, perché con il neorealismo gli attori non erano importanti, bisognava prendere gli attori presi dalla strada: era una specie di dogma, quasi. Poi però siamo andati avanti in questo modo, per cui si prendevano anche per un cinema, che non appartenesse più al neorealismo: si è continuato a cercare dei volti, da doppiare, e il teatro se ne è andato per fatti suoi verso una deriva, devo dire, in certi anni. ancora un po’ ottocentesca. Quando sono venuto fuori dall’accademia e andavo in giro per fare dei provini per il cinema, la cosa importante, che ci dicevamo tra di noi, era di non dire d’ aver fatto l’accademia, perché gli attori formati da una scuola teatrale venivano visti con sospetto. Oggi grazie al cielo non è più così. La maggior parte degli attori, anche dei più giovani, anche importanti, vengono da scuole o di teatro, anche dalle scuole di cinema. Anche il teatro ha vissuto una nuova vitalità. Però c’è sempre un po’ un sospetto, per esempio nei confronti anche di alcuni copioni, di cui delle volte, si dice, ‘ma è teatrale’. Eppure quanti sono grandi film, di grandissimi maestri, che hanno proprio il pregio di essere teatrali. Da noi c’è questo sospetto e anche un autorevolissimo critico, di cui non faccio il nome, di fronte a un mio film, che era Dobbiamo Parlare, che avete proiettato anche qui, disse, ‘vabbè ma è teatrale’, e poi è parlato, come se il cinema non dovesse essere parlato, ma poi ci sono dei film di grandissimi maestri, in questo senso. Credo che ciò sia frutto di un’idea, come dire, un po’ ristretta del cinema.

Come se un film che si svolge in un ambiente solo, non necessariamente fosse cinema, come se un film che si risolve attraverso i dialoghi, non fosse cinema. Certi film sono assolutamente teatrali. Penso a Fanny e Alexander. Ci sono dei film che hanno un impianto teatrale e che hanno in quell’impianto lì il proprio grande valore. Quando si vuole parlare male di un film, si dice: ‘ma c’è qualcosa di teatrale’. Come se questo aggettivo, in qualche modo, fosse un elemento dispregiativo, che non va bene.”

“La scrittura è una delle fasi del cinema che mi piace moltissimo, perché è un momento in cui non devi confrontarti con tutti i problemi che hanno a che fare con il budget, con la logistica, ecc.  È un momento di grandissima libertà ed è un momento di scavo interiore, profondo: è un momento molto intimo. E scrivere insieme significa condividere la propria intimità con gli altri, che è anche un ossimoro, per certi versi, no? Per queste ragioni la scrittura è un momento che crea dei momenti di grandissima armonia e degli scazzi paurosi, in cui vengono fuori le diversità, però si scrive insieme proprio perché siamo diversi e perché, appunto, un copione possa arricchirsi di diversi punti di vista: questa dialettica può essere anche furiosa delle volte”

“Per esempio, io scrivo con mia moglie e questo crea ancora di più dei problemi, perché poi a quel punto i guai della scrittura si ripercuotono anche sulla nostra dimensione, diciamo così, familiare. Uno può pensare: scrivete insieme ed è molto bello. No, non è così. Un altro esempio, io e Domenico Starnone, con il quale ho scritto molti film, abbiamo avuto un rapporto dialettico. Sono fiero e lo dico con orgoglio: abbiamo litigato tante volte. Lo racconto per dire quanto è bella la scrittura, quanto è anche sana, cavalleresca, olimpica, perchè si litiga per delle idee, non si litiga perché uno vuole dei soldi in più dell’altro o perché vuole la donna di un altro. No, si litiga per una visione del mondo e con la consapevolezza di avere un obiettivo comune, riuscire a scrivere una storia che sia la più autentica possibile, la più bella possibile, che incontri il più possibile non il gusto ma la comprensione del pubblico”

“Io ho cominciato a fare i film da regista nell’89 e poi, diciamo, fino al 1999, i miei primi cinque film, perché mediamente ho fatto un film ogni due anni, i miei primi cinque film io li raccontavo e poi gli sceneggiatori li scrivevano, io poi li correggevo e poi loro li correggevano e li correggevano ancora. Poi invece nel 1999 ho conosciuto Starnone e Starnone mi ha detto, no, tu devi cominciare dalla pagina bianca. Da quell’anno lì ho cominciato a fare l’analisi, ho conosciuto mia moglie, ho cominciato a scrivere con Starnone. E queste tre cose sono molto simili, hanno molto a che fare l’uno con l’altra, perché, scrivere, cominciare dalla pagina bianca significa fare un percorso interiore, questo significa farlo anche con l’analisi, è la stessa cosa, è. in fondo, anche incontrare la donna della propria vita: significa fare un viaggio dentro noi stessi. Queste tre cose messe insieme mi hanno cambiato profondamente” 

“Quand’è che sono davvero felice facendo del cinema, partendo dalla scrittura? Hai scelto la persona sbagliata per fare questa domanda, perché devo rispondere mai. Mai. Però, certamente, dirigere gli attori è un momento bello, importante, emozionante. Prima di tutto perché, come dire, dirigendo l’attore fai anche una verifica di ciò che hai scritto, puoi verificare ciò che hai scritto, come funziona, lo addrizzi. È un momento in cui tutto ciò che è rimasto nella tua testa fino a quel momento si concretizza e si concretizza attraverso gli esseri umani. Permettimi di dirvi due parole rispetto proprio al mestiere dell’attore. Io cito sempre un passaggio dell’Amleto per raccontare quale dovrebbe essere il mestiere corretto con gli attori, perché c’è un certo punto nel terzo atto, Amleto, che è un essere lunatico, strano, non parla, non racconta di aver visto il fantasma del padre, è oggetto delle trame dello zio, cattivo, il quale vuole in qualche modo che Amleto parli e siccome Amleto non parla gli manda due amici che sono Rosencrantz e Gildestern. E Amleto, a un certo punto, siccome sente che questi due cercano di estorcergli delle parole, dei racconti, prende un flauto e glielo mette in mano ad uno dei due e dice: ‘suona’. E Rosencrantz risponde: ‘ma io non so suonare? Amleto insiste: ‘ma dai, suona, ci sono solo quattro buchi, è un pezzo di legno, suona’. E lui ribatte: ‘ma io non so suonare’. E Amleto conclude: ‘tu non sai suonare questo pezzo di legno con quattro buchi e vuoi far cantare me, che sono un essere umano, sono uno strumento ben più complesso di un flauto, di un pezzo di legno con quattro buchi’. Ecco, diciamo, io quando mi trovo di fronte a degli attori cerco di ricordarmi sempre questo, che non sono degli strumenti, non sono un pezzo di legno con quattro buchi, sono degli esseri umani e per farli cantare devi mettere in ballo tutta la tua umanità perché loro ti diano la loro anima. Quando avviene questa cosa preziosissima, cioè quando ci spogliamo dei nostri ruoli, non sono più un regista ma una persona che cerca di relazionarsi con un’altra persona, con le sue fragilità, per accedere così alle parti più remote, nascoste e preziose di quella persona, quando succede, quel momento diventa magico ed è un momento abbastanza esaltante”

[dichiarazioni raccolte da THR Roma]