Caravaggio 2025: il “primo pittore dell’umanità” in un allestimento discutibile e faticoso

Il visitatore, come un Caravaggio giovane tra i vicoli di Roma, si aggira tra figure che si accalcano, che spingono e chiedono di essere guardate per prime.

«Il primo pittore dell’umanità»: così Roberto Longhi, più di un secolo fa, restituiva a Michelangelo Merisi il rango di fondatore della pittura moderna. E ancora oggi, attraversando le sale di Caravaggio 2025 a Palazzo Barberini, si ha l’impressione che quella verità sia ancora più tagliente, come luce che incide il buio.

 Ventiquattro opere raccolte in un percorso che non si limita alla celebrazione, si offre allo sguardo e, nello stesso tempo, si nega dietro veli di mistero. Il visitatore entra in un ambiente che subito impone silenzio. Non un silenzio di devozione, ma di costrizione. Le prime sale si offrono strette, quasi gremite di presenze. 

I quadri, radunati come in un conclave di testimoni, si contendono lo spazio e la luce; e il pubblico, affollato in corridoi appena dilatati, si muove cauto, costretto a fermarsi e riprendere fiato. Non c’è un’introduzione rassicurante, nessuna anticamera che accompagni al primo sguardo: si è gettati subito nella mischia, come un Caravaggio giovane tra i vicoli di Roma, tra figure che si accalcano, che spingono, che chiedono di essere guardate per prime.

L’illuminazione, calibrata con studio, taglia lo spazio come la lama di luce che Merisi stesso avrebbe lasciato cadere dall’alto di un soffitto nascosto. Ogni dipinto emerge dall’ombra, isolato in un cono che ne esalta la presenza: la carne lattiginosa del Bacchino malato, la scorza coriacea del San Giovanni Battista, il velluto che si tende sulle spalle della Santa Caterina. Ma è un buio che non lascia tregua, e che non concede riposo. 

Le didascalie, minuscole e poco illuminate, restano ai margini, quasi vergognose della propria presenza. Costringono il visitatore a una lettura affannosa, in squilibrio tra l’attrazione per la pittura e il bisogno di orientarsi nel discorso critico. Talvolta sembrano voci sussurrate in fondo alla stanza, quando l’attenzione è già rapita altrove. È una scelta che restituisce l’idea di un’arte da contemplare prima che da spiegare, ma che rischia di lasciare il pubblico in una penombra non solo fisica, ma anche concettuale.

Nonostante tutto, resta difficile godere appieno della grandezza dell’esposizione: le sale, anguste e inadatte al flusso incessante di visitatori, impediscono ogni forma di sosta contemplativa. La calca è tale da negare quasi del tutto l’accessibilità visiva e fisica alle opere, rendendo impossibile quel dialogo intimo con i dettagli pittorici che la mostra stessa invoca. Così, ciò che nasce con l’ambizione di essere un progetto scientifico e divulgativo, finisce per smarrirsi, sacrificando la comprensione sull’altare dell’evento. Una mostra che, alla fine, serve più al museo per riqualificarsi che al visitatore per scoprire davvero Caravaggio.

Superato questo primo impatto, si entra nel cuore del racconto. Le prime tele, quelle dei Naturalia, come il Mondafrutto e il Bacchino malato, raccontano l’ingresso di Caravaggio nella città eterna. Sono quadri che portano ancora il respiro del nord, la lezione milanese di Simone Peterzano, ma che già sprigionano quella radicalità che li separa da ogni discendenza. Non c’è più l’allegoria, non c’è più il mito: solo frutta che marcisce, carne che arrossisce, occhi febbricitanti. 

Con l’incontro con Francesco Maria del Monte, il giovane Merisi entra nel mondo dei potenti e degli intellettuali, ma non tradisce il suo sguardo. I Musici, la Buona Ventura, i Bari parlano ancora di un mondo basso, di uomini che sanno che il destino si gioca in una partita di dadi o in un colpo di coltello, e che la redenzione non si merita ma si vince. 

La luce in queste tele è ancora pulviscolare, una polvere dorata che si deposita sui volti e sui panni con la dolcezza di un pomeriggio d’estate. È la Roma dei cortili e delle logge, dei suonatori che attendono il committente sotto il portico.

Poi il salto: il dramma. La Vocazione di San Matteo, la Crocifissione di San Pietro, la Conversione di Saulo per la cappella Cerasi sono la dichiarazione di guerra al manierismo, la scomunica del divino che resta lontano. Qui Dio si fa luce, e la luce si fa lama. Le figure sono colte nell’attimo che precede la rovina o la grazia, quando la scelta è già stata fatta, ma l’uomo non lo sa ancora. I corpi si piegano, si rialzano, si ribellano. Ogni gesto è definitivo.

Accanto a queste scene sacre, l’esposizione apre un varco su un Caravaggio meno noto, eppure essenziale: il ritrattista. Il doppio Maffeo Barberini, presentato qui per la prima volta insieme, dimostra come l’artista non facesse differenza tra santi e prelati, tra santi e peccatori. Il volto di Maffeo emerge dal buio come quello di un complice, o di un fratello. Non c’è distanza. La pittura qui non è celebrazione, ma testimonianza: quell’uomo è stato, ha guardato, ha parlato. La tela conserva il calore del suo respiro.

Il viaggio prosegue verso Napoli, verso Malta, verso la fuga e la condanna. I capolavori napoletani – la Flagellazione, l’Ecce Homo appena riscoperto – parlano un linguaggio di carne lacerata e di occhi accecati dalla luce. I colori si raggrumano, le forme si tendono al limite della sopportazione. Il Merisi sembra stanco del mondo, e forse anche della pittura. Non si concede nulla, non lascia scampo.

Il Martirio di Sant’Orsola è forse l’ultimo gesto consapevole: l’artista si consegna al destino, sapendo che non tornerà. La santa è ritratta mentre guarda il suo carnefice – e quel carnefice ha il suo stesso volto. La condanna è pronunciata, la pena eseguita. Restano la tela, il colore, la luce. E poi il silenzio.

Al Casino Ludovisi, il Giove, Nettuno e Plutone è l’ultima parola non detta. Un soffitto che chiude, una volta che si sigilla. I tre dèi rappresentano gli elementi primi, ma anche le tre parti dell’anima di Caravaggio: il corpo, l’anima, la colpa.

A quattrocentoquindici anni dalla morte, questa mostra si offre non come apoteosi, ma come processo ancora aperto. Caravaggio continua a porre domande che nessuno ha saputo risolvere. E se è vero, come scrisse Longhi, che «dal Caravaggio discende tutto ciò che nella pittura vive ancora», non ci resta che guardare queste opere e riconoscerci in esse: moderni e perduti.