Oggi sembra difficile capirlo, ma quando il quattro giugno di quarant’anni fa uscì Born in The U.S.A. fu un trauma per Bruce Springsteen e per buona parte degli irriducibili seguaci. Probabilmente né Bruce né i suoi fan erano preparati a quel successo clamoroso che ne fa uno degli album rock più venduti della storia ma che soprattutto ha trasformato Springsteen in una super star mondiale.
Per arrivare a quel traguardo aveva lavorato come un matto, da buon working class hero ma in realtà non era essere una super
star da Mtv che gli interessava: in fondo dopo che finalmente aveva sfondato, nel 1975, con Born To Run, nel 1978 aveva registrato Darkness On The Edge Of Town, un album potente e scurissimo che molti anni più tardi Don Winslow definirà come un
grande noir.
E dopo che nel 1980 grazie a The River aveva cominciato a riempire le arene americane e con Hungry Heart era per la prima volta entrato nelle chart dei singoli, nel 1982 aveva pubblicato Nebraska, un disco chitarra e voce, un capolavoro di spietato minimalismo rock. Per i fan il Boss era un culto, in Italia poi fino a quel momento erano un’enclave gelosissima della fede in quel ragazzo del New Jersey che riusciva a trasformare in musica e parole le loro vite e i loro sogni.
Born in The U.S.A travolse il mondo con la forza di un uragano: per i puristi fu un oltraggio sentire le tastiere, con quel suono così puramente Eighties. Per il mondo intero fu come il canto delle sirene: “Born Down in a Dead Man’s Town” è l’incipit di un testo durissimo su un reduce del Vietnam che vive il dramma del ritorno a casa, eppure conquistò i quattro angoli del pianeta.
Ronald Reagan tentò di appropriarsene per le proprie campagne patriottiche, subito stoppato dal Boss che rifiutò di
concedergli i diritti. E poi, “scandalo nello scandalo”, Dancin’in The Dark, il brano aggiunto a disco chiuso, dopo una tremenda litigata con Jon Landau, il manager-produttore-tutore che aveva chiesto “un singolo”. Ai fan sembrava un oltraggio quel pezzo ballabile, con il video firmato Brian De Palma con un’adolescente Courtney Cox chiamata sul palco a ballare con il Boss.
Oggi la ragazza che sale sul palco a ballare è un rito immancabile, “You Can’t Start a Fire, You Can’t Start a Fire Without A Spark” è un coro altrettanto immancabile. In realtà le 12 canzoni di quell’album trionfale hanno storie lunghe, come d’abitudine in Springsteen: quello che è nuovo è il sound, più potente, si potrebbe dire esplicito, per la prima volta volutamente legato alla contemporaneità e forse per questo così clamorosamente accolto.
Come tutti i capolavori, anche Born In The U.S.A. è una storia fatta di tante storie: come quella di Little Steven Van Zandt,
destinato a diventare il Silvio Dante dei Soprano, che registrato quell’album, dopo essere stato accanto a Springsteen dai tempi in cui erano due ragazzi squattrinati che dominavano le session notturne sul Jersey Shore, decise di andare via dalla E Street Band dove poi rientrerà qualche anno dopo. E’dedicata a lui, a quell’errore madornale di cui non si è pentito mai abbastanza, la struggente Bobby Jean.
Grazie anche al missaggio di Bob Clearmountain, Born In The U.S.A. sembra creato per essere suonato negli stadi: ed è proprio con quella tournée che il 21 giugno 1985 Bruce arrivò in un San Siro pieno all’inverosimile. Non era ancora buio quando uscì sul palco e urlò un “One, Two, Three, Four” che avrebbe tolto la voce a qualsiasi uomo normale. Cominciò proprio da Born in The U.S.A. la prima volta del Boss in Italia: sul secondo anello spiccava lo striscione “Bruce Zerilli”, omaggio alla mamma Adele, figlia di Antonio, da Vico Equense.
E proprio “Bruce Zerilli” è il titolo del bootleg di quel concerto leggendario. Da allora San Siro è uno dei templi mondiali dello
Springsteenianesimo e da quel giorno anche i fan più gelosi del loro culto accettarono il fatto che tutto il mondo aveva capito
che Bruce Springsteen è uno dei più grandi rocker della storia.
(Ansa)
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