Paolo Carnera: “Ragazzi, rubateci il mestiere. Vogliamo condividere tutte le conoscenze e le informazioni, senza segreti”

Dal lavoro con Mario Martone e Stefano Sollima fino alle produzioni internazionali. E mentre aspettiamo il film con Gabriele Mainetti e la serie M - Il figlio del secolo, il direttore della fotografia ci racconta della nascita di Chiaroscuro, nuova associazione culturale di settore, nonché ponte di comunicazione con i più giovani. L'intervista di THR Roma

Sta per cominciare il set di Mario Martone, ha lavorato al prossimo film di Gabriele Mainetti e tra le ultime collaborazioni internazionali c’è l’opera – seppur ferma – di Peter Greenaway, La via per Parigi, oltre alla seconda unità dell’attesissima serie M – Il figlio del secolo. Nel mezzo, la nascita di un nuovo collettivo.

Paolo Carnera è il presidente di Chiaroscuro, associazione culturale di direttori e direttrici della fotografia in cerca di un filo conduttore che unisca la categoria con tutti i reparti della produzione, tecnica e artistica, e possa includere studenti e alunni delle scuole di cinema, mettendoli già in contatto con i colleghi che trasmetteranno loro conoscenza e strumenti utili per la professione.

Un’iniziativa in cui Carnera, nel 2024 vincitore del David di Donatello per la fotografia di Io capitano di Matteo Garrone, si fa affiancare dai vicedirettori Daria D’Antonio e Luca Ciuti, per una nuova realtà cha tra incontri, masterclass e universo social si prefissa l’obiettivo di rendere la comunicazione varia e partecipativa, oltre che sempre più competitiva per il mercato internazionale.

Da quale esigenza nasce Chiaroscuro?

Con i nostri colleghi sentivamo un vuoto. Sentivamo di non riuscire a comunicare tra noi, o almeno non in maniera soddisfacente. Chiaroscuro nasce da questa necessità. Da un simile bisogno. Di veder rappresentata al meglio la cinematografia contemporanea attraverso un’associazione culturale che diventasse una realtà per tutti, dai giovani alle autrici della fotografia, che stanno diventando sempre di più nel nostro panorama, entrando a far parte di produzioni e opere di alto livello.

Non c’è stato nulla che, fino ad ora, vi rappresentasse?

Esiste un altro organo associativo, l’AIC, con cui vogliamo affiancarci per rendere più agile, veloce e contemporanea la modalità di comunicare tra noi.

Quali sono, dunque, gli obiettivi che vi siete prefissati?

Condividere le nostre esperienze, soprattutto con i più giovani. Mettere a disposizione i nostri punti di vista professionali per farli crescere velocemente. Per questo a breve apparirà un sito, un contenitore di iniziative e articoli, tra interviste e news, che espongano le nostre tecniche, le nuove tecnologie e i progetti artistici dei lavori a cui abbiamo preso parte. Abbiamo anche un podcast già pronto di cui è stato diffuso il trailer su Spotify, oltre a dei canali social su Instagram e TikTok. L’obiettivo è muoverci e espanderci come collettivo. Tenere il passo e mettere le informazioni a disposizioni di tutti, raccontando su quali progetti siamo impegnati e rimanendo costantemente aggiornati.

Un mettere totalmente a disposizione la propria visione.

Ognuno di noi parte da un’idea di cinema. Pensi a come potrebbe essere il mondo visivo che ti viene proposto e spesso sono immagini che non hai mai realizzato prima. Così devi cominciare a studiare come poterle creare, quali sono le più adatte, guardi come le hanno fatte gli altri prima di te. Rubi un pezzo da uno, un pezzo da un altro. Siamo curiosi rispetto a tutto ciò che succede nel cinema, che provenga da qualsiasi angolo del mondo, quello orientale, mediorientale, dell’Europa dell’est, ma anche del nord. Vogliamo guardare oltre perché anche gli altri ci guardino. Essere un contenitore con cui conoscere e interagire con i colleghi internazionali.

Dal sito ufficiale di Chiaroscuro

Dal sito ufficiale di Chiaroscuro

Chiaroscuro parteciperà attivamente a delle attività di incontro e masterclass con i più giovani?

Ho frequentato il centro sperimentale quando ero giovane e ricordo bene la mia esperienza con Carlo Di Palma. Oggi ad insegnare fotografia è Peppe Lanci, che invita costantemente i dop per seminari, rassegne e stage con i più giovani. Il collettivo sarà a disposizione dei docenti delle scuole di cinema. Organizzeremo degli workshop di sicuro. Molti studenti sono già stati stagisti sui nostri set, su quello di Mario Martone ce ne sono tre nel reparto fotografia. Lo scopo è integrare parte pratica e parte teorica, lavorare su un doppio binario, affinché possano crescere presto. L’età media del settore si è già abbassata, ma deve continuare a farlo.

Vi date come scopo l’essere un punto di riferimento per i direttori e le direttrici della fotografia di domani. Chi sono stati, invece, i suoi di maestri?

L’incontro più importante che ho avuto è con Ernst Haas dell’agenzia Magnum, è stato ciò che ha fatto esplodere la mia passione per la fotografia. Anche Carlo Di Palma mi ha insegnato moltissimo. Lanci è un maestro che stimo e ho sempre ammirato la profondità con cui affronta il racconto visivo. La verità è che sono tantissime le personalità di talento con cui ci confrontiamo quotidianamente. Gli scambi sono e devono essere stimolanti, sia in Italia che con l’estero.

E lei ci ha lavorato all’estero, più di una volta. Nel 2021 ha curato la fotografia de La tigre bianca di Ramin Bahrani. Che ricordo ne ha?

Bellissimo. Sono legato al film. Era una produzione Netflix con un regista di origine iraniana che ha affrontato un viaggio in India con intelligenza e passione, dove c’erano sia pochi elementi italiani, che americani, ma una fusione di quante più sensibilità possibili.

Come è capitato?

Con Ramin ci siamo conosciuti quando cercava un direttore della fotografia per Treadstone, una sorta di spin-off di Jason Bourne. Ma ho preso parte a diverse produzioni straniere, come il noir francese Black Tide – Un caso di scomparsa con Vincent Cassel o ultimamente nella seconda unità della serie M – Il figlio del secolo di Joe Wright in cui ho affiancato Seamus McGarvey, un uomo davvero aperto alla collaborazione e al confronto.

Tra i suoi prossimi lavori internazionali c’è anche il ritorno di Peter Greenaway. Come si sono incrociate le vostre strade?

Mi ha telefonato, ci siamo incontrati e abbiamo girato una parte di film. Purtroppo al momento è bloccato al montaggio da diversi mesi, spero finisca presto. Greenaway è uno dei talenti visionari del nostro secolo.

La sua esperienza dimostra che per i nostri professionisti è possibile sognare l’estero. È ciò che vorreste fare anche con Chiaroscuro? Aprire ancora di più le opportunità internazionali?

È proprio questo l’obiettivo. Siamo consapevoli che la sfida creativa si è aperta al mondo, non solo all’Italia. Gli spettatori oggi vedono film da 5 milioni di budget come quelli da 100 milioni e questo anche per via delle piattaforme. Ciò significa che, in qualsiasi produzione rimaniamo coinvolti, dobbiamo fare in modo di realizzarla meravigliosamente per dimostrare di essere alla pari con il resto dei paesi. Sono stato chiamato per La tigre bianca dopo che Ramin Bahrani aveva visto Gomorra, è stato uno dei primi progetti italiani che ha viaggiato internazionale, e questo ha permesso che lo vedessero tanti occhi diversi, cosa che sta diventando sempre più frequente. E vogliamo proprio che i nostri giovani colleghi facciano film belli e serie potenti per raggiungere più pubblico possibile.

La serialità, anche e forse soprattutto in Italia, in un primo momento è stata il campo su cui buttarsi per tentare di sperimentare più di quanto sembrasse voler fare il cinema. Ha mai ragionato insieme a Stefano Sollima su un simile vantaggio creativo?

Con Sollima avevamo cominciato già con Romanzo criminale a strutturare un’idea di serialità che guardasse alle narrazioni a puntate come se fossero un film. Tant’è che da lì a poco non c’è stata quasi più differenza tra i due media. Tutto è diventato ugualmente trascinante. Lo è stato con Romanzo criminale, lo è stato con Gomorra e lo sarà anche con Il Mostro di Netflix, sempre di Sollima. Ma che la serialità sia stata un terreno di sperimentazione lo dimostrano le immagini, quanto più forti e audaci rispetto a volte al cinema. Con Chiaroscuro sarà uno dei punti fermi, la consapevolezza che bisogna avere il coraggio di tentare sempre qualcosa di nuovo.

Il backstage di Io capitano di Matteo Garrone, fotografia di Paolo Carnera

Il backstage di Io capitano di Matteo Garrone, fotografia di Paolo Carnera

E lei lo ha fatto anche con i giovani registi, ad esempio avendo accompagnato Fabio e Damiano D’Innocenzo dall’inizio della loro carriera cinematografica, fin dall’esordio La terra dell’abbastanza.

Posso dire la verità? Sono io che dovrei ringraziare loro per ciò che mi hanno permesso di fare. Ho potuto oltrepassare una visione artistica convenzionale e questo perché sono aperti a qualsiasi stimolo e suggestione. Per loro ho realizzato alcune delle immagini di cui sono più orgoglioso. Ogni regista porta con sé una propria poetica e la bellezza del mestiere è che non si è mai simili agli altri, ogni nuovo autore ha una sua sensibilità ed è emozionante entrarci. Ciò che dobbiamo poi fare noi dop è capire il percorso che l’autore vuole costruire, cercare di entrare nelle loro storie e comprendere come renderle reali.

E, ora, metterle al servizio di altri giovani autori con Chiaroscuro.

Ben venga. Vogliamo condividere tutte le informazioni e non avere segreti. Ragazzi, rubateci il mestiere.

Sebbene i registi sono sempre i primi interlocutori con cui rapportarsi su un progetto, negli ultimi anni sono diventati fondamentali le aggiunte digitali alle immagini. Ci sarà un’attenzione nel rapporto tra fotografia e nuove tecnologie?

Vogliamo aprire dei ponti non solo con i registi, ma con tutti i reparti, dai costumisti al trucco fino alle scenografie. Il raggio è ampissimo ed è ovvio che rientrano anche gli effetti visivi. L’idea è di mantenerci al passo con i processi di crescita delle nuove tecnologie, di organizzare incontri con chi cura la post-produzione, la color correction, gli effetti visivi per saperne di più. E mentre li scopriamo vogliamo che i ragazzi siano al nostro fianco.

Non temete il sopravvento dell’intelligenza artificiale? Da un punto di vista artistico, ma anche etico?

È un terreno difficilissimo, soprattutto per ciò che concerne l’etica. Resto comunque convinto del fatto che servirà sempre l’elemento umano per dare la vera scintilla alla macchina, la stessa che intrinsecamente la tecnologia di per sé non ha, anche se è indubbio notare come abbia facilitato il lavoro in passato e continuerà a farlo, sviluppandosi ancora e ancora. Alcuni effetti di deepfake e di intelligenza artificiale usati su M – Il figlio del secolo sono straordinari. E il merito è di Sophie Muller, regista visionaria della seconda unità che ha diretto diversi video musicali e che ha aperto la sua vasta conoscenza a me e Stefano Leoni di EDI (Effetti digitali italiani, ndr.). Bisogna conoscere tutti gli strumenti a disposizione. Ed è poi l’essere umano a usarli con genialità.

Così che si possano raggiungere grandi risultati. Tra i suoi ultimi, il David di Donatello per Io capitano di Matteo Garrone. Come è stato?

Ho seguito tutto il percorso di Matteo. È stato bellissimo vedere non solo il tour statunitense, ma come abbia riportato il film in Senegal, dove tutto è cominciato. È una terra che ci ha donato tanta generosità. È stato emozionante ricevere la telefonata di Matteo e posso dire di essere orgoglioso del lavoro fatto.

Sembra che con lei parta tutto da una telefonata.

Sono stato fortunato. Ma dietro ogni telefonata c’è una sfida, una scommessa. Quando volte mi sono detto: “Chissà, magari stavolta è la chiamata di Matteo”. Ho aspettato. Nel frattempo ho ricevuto anche dei no, alcuni molto dolorosi. E ce ne saranno sempre. Ai giovani dop dico di studiare, farsi trovare prepararti e di credere nelle possibilità di questo mestiere. Di andare avanti come un ariete.

Se dovesse citare la fotografia di un film che le ha cambiato la vita?

In omaggio al mio maestro Di Palma, direi che Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni è un vero colpo al cuore. Ci penso ancora. Tante volte la mente, i riferimenti vanno a quell’opera. Non per film interi, ma quando affronto scene nello specifico, come so che mi capiterà prossimamente.