Ecco cosa dice il rossovestito: “Raccontiamo l’inverno di un essere umano che ha il dovere e il desiderio di inseguire un altro essere umano, di intercettarne i profumi, i sapori. Anche quelli sgradevoli, anche quelli di morte, in un inverno malinconico che sembra non finire mai”. Di questo narra Dostoevskij. Parola di Fabio D’Innocenzo, infilato in un abito porpora, caratteristica barbetta nerissima che condivide con il gemello Damiano, che è quello con la giacchetta nera corta. Non sono pochi coloro che pensano siano loro due i registi-autori più interessanti del cinema italiano, ora approdati alla serialità proprio con Dostoevskij, prodotta da Sky Original e oggi rivelata alla Berlinale, con tanto di red carpet, annessi e connessi.
Un oscuro noir molto particolare – c’è chi lo definisce lisergico ed esistenziale – con Filippo Timi, Gabriel Montesi, Carlotta Gamba e Federico Vanni, un viaggio di sei episodi (per ora) che narrano di “un uomo che ha rinunciato a se stesso e che è in fase di abbandono”. Sì, parlano così i fratelli Coen di Tor Bella Monaca, e forse è questa loro arte affabulatoria sbilenca eppur precisissima una delle chiavi della loro arte, forse del loro successo (qui a Berlino hanno una storia importante, dall’esordio di La terra dell’abbastanza, presentato nella sezione Panorama nel 2018, a Favolacce, Orso d’Argento per la sceneggiatura nel 2020).
E così, dopo aver buttato giù il plot e l’epilogo “in un quarto d’ora” (prendiamo dalle note di stampa: “In un lasso di terra scarno e inospitale, il poliziotto Enzo Vitello, uomo dal buio passato, è ossessionato da “Dostoevskij”, killer seriale che uccide con una peculiarità: accanto al corpo l’omicida lascia sempre una lettera con la propria desolante e chiarissima visione del mondo, della vita e dell’oscurità che Vitello sente risuonare al suo interno”), sono venuti alla Berlinale per spiegare che questo non è un film, né una serie (ossia è ambedue le cose, visto che approderà al cinema a maggio e in autunno verrà mandato in onda a puntate da Sky), ma qualcos’altro: “Io lo chiamo un romanzo”, scandisce Fabio, il rossovestito (“sì, oggi paio Joker. Ma non vi farò niente di male, eh”).
E infatti spiegano, i gemelli D’Innocenzo (sono nati ambedue il 14 luglio 1988), che come location hanno trovato una sorta di mondo desolato (è il Lazio, “ma sembra l’Alabama”), dove raccontare “un uomo che fosse un archetipo, quello del detective, ma scarnificato”. Dopo quei quindici minuti di plot (un progetto, sottolineano quelli di Sky, nato proprio a Berlino sei anni fa), realizzare la serie non è stata un’avventura facile: “Era inverno nella storia ed era l’inverno dei personaggi, ma anche se le riprese sono state complicate questo è il prodotto audiovisivo del quale oggi andiamo più fieri”. Anche perché al di là della vicenda noir in sé (“realizzata senza rifarsi a modelli preconfezionati”), scandisce Fabio con un sorriso, “questa serie parla del momento che stiamo vivendo, della possibilità di scegliere il cambiamento. E io sono felice di stare in questo momento ambiguo, in cui le acque sono mosse”.
Non si ferma, l’affabulazione dei gemelli venuti da Tor Bella. Quando qualcuno accenna al ritmo a tratti estenuato di Dostoevskij, Fabio risponde che “è una nostra prerogativa essere fuori moda. Prima che regista sono spettatore, prima di entrare in plot devo entrare in un’atmosfera. Volevamo partire da scene forti, ma con ritmi che permettessero al pubblico di perdersi nei luoghi, di appartenere a questi personaggi”. Di più: è un “patto di fiducia” quella che i D’Innocenzo chiedono al loro pubblico. “Chiediamo alle persone stare alle regole del racconto. Non è snobismo, ma non vogliamo neanche andare a elemosinare. Chiediamo allo spettatore un approccio al racconto che sia vivo: lo spettatore non deve stare sul divano a scaccolarsi, deve partecipare attivamente”.
Non solo di questo si è discusso, all’incontro di lancio di Dostoevskij all’Hotel Adlon Kempinski, un albergo multistellare di fronte alla Porta di Brandeburgo dove ieri, per dire, è passato anche l’ex segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon. Per esempio dell’assenza di giudizio, nella serie e di loro come registi: “E’ una predisposizione che ci portiamo appresso dalla vita: essere curiosi ma evitare di cadere nella trappola di giudizio, questa è la nostra descrizione di bellezza. Già siamo in una dittatura di pensiero e di opinioni in questo paese: perché allora farlo come storytellers? Abbiamo scritto i copioni, girato e montato: giudicare è un optional di cui non sentiamo il bisogno. Il nostro cinema rispecchia davvero quel che siamo”.
Anche quando qualcuno tra i giornalisti dice che Dostevskij “sembra un film fatto sotto acido”, il D’Innocenzo rossovestito va diritto al punto: “Vitello, il protagonista, ha da combattere qualcosa di quasi indicibile e ne porta le ferite nell’animo. Quello della salute mentale è ancora un tabù, ma non dovrebbe esserlo: io per esempio faccio uso di psicofarmaci, perché soffro di un disturbo, non mi vergogno di dirlo”.
Certo, qui ci sono anche Filippo Timi e Carlotta Gamba. Dice il primo, la star di Dostevskij (pare che avesse in tutto 289 scene da girare): “Avevo il desiderio di incontrarli, non me ne fregava un cazzo in quale ruolo”. Timi sembra più un innamorato che un attore scritturato. “Vedete, la frase ‘un temporale feroce come un litigio fra fratelli’ io la capisco. C’è invenzione. È una frase che avevo già dentro. E quanta cura, quanta attenzione hanno avuto i due fratelli sul set. L’appuntamento era alle sette, loro arrivavano alle cinque e se ne andavano per ultimi. Sempre”.
Pure Carlotta Gamba, bella e oscuramente fascinosa, parla come un’innamorata: “Quando scrivono è come ti dessero in mano la vita e come se tu dovessi solo attraversarla. Questa esperienza è stata importante emotivamente, ma è anche stata la cosa più vera che io abbia mai affrontato. La magia è proprio questa: trovare nella cosa più distante da sé qualcosa di così vicino. Sì, ci siamo lasciati andare. Pur rimanendo meticolosi nel rispettare la sceneggiatura, ad ogni scena ti dicevi: parto, ma non so dove vado a finire. Sì, ci hanno portati a spogliarci di noi stessi. Tuttti”.
A giudicare da qui, Dostoevskij appare essere un vortice. Di significati, di umori, di atmosfere, di sentimenti. Una lucente celebrazione dell’oscurità. Amen.
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