Valentino, la vigilia della sfilata

È la storia di un momento prima. Il mago è vestito di nero e tutti gli altri di bianco. Le prime sarte mostrano i modelli, lui sta fermo, osserva. Si muovono veloci, seguono una coreografia che si ripete da decenni. È un rito, una cerimonia segreta. Qualcuno si commuove.

Questa è la storia del momento prima. Fra poco saranno avvolti nella carta, questi abiti fatti di vento. Fra qualche ora, di notte, usciranno da qui, Roma, Italia, primo piano di un palazzo davvero bello, così bello che i turisti arrivano da tutto il mondo a fare le foto ma noi a Roma non ci facciamo caso, siamo cinici e svagati, sono solo scale – in fondo – queste di piazza di Spagna.

E’ qui la bottega del mago. Il posto dove per l’ultima volta osserva le creazioni prima di lasciarle andare, nel segreto privato della sua piccola stanza: le tocca, le sente, si sofferma su una piega, le cambia di un niente che invece è tutto. Domani partiranno. Nascoste, protette come tesori (un tempo c’era chi le copiava solo a vederle un istante, perciò per tradizione si muovono coperte). Viaggeranno in un camion dedicato, col buio, indicate da sigle, attraverseranno l’Italia varcheranno le Alpi, arriveranno in Place Vendome, a Parigi, dove in un altro atelier saranno, per la prima volta, esibite ad altri sguardi e infine, mercoledì, al mondo. Gli oggetti del desiderio.

Ma ora no. Oggi ancora per qualche momento gli abiti sono solo di chi li ha pensati, disegnati, cuciti. Sono un dubbio, una speranza, un’idea che si realizza. Sono delle cinque sarte, degli assistenti ora emozionatissimi che per mesi e mesi, sui tavoli, li hanno tenuti in mano, ricamati. Le mani. Le mani delle sarte, imparo oggi qui, sono tutte diverse. Le sarte sono le fate del mago, in questa fiaba. Ciascuna ha un potere. Tutte sanno tutto quel che c’è da sapere, naturalmente, sono tra le migliori del mondo ma ciascuna ha un suo speciale dono. Una conosce la gravità, una la leggerezza. Una il rigore, l’altra il sogno. Una fa volare le stoffe. Un’altra le fa cadere a piombo. Lo stesso disegno nelle mani dell’una o dell’altra diventa un oggetto diverso. E’ dalle mani, che dipende tutto. Questo bisogna ricordarselo bene, sempre. Le mani che accarezzano. Le braccia che abbracciano fanno la differenza. Toccano secondo loro sapienza, dunque secondo la storia di vita che hanno. Chi sono state, chi sono. Niente è mai uguale. Tutto dipende da chi siamo noi che lo facciamo esistere.

Quindi ecco. Prendo questi appunti perché temo di dimenticare. Tutte le immagini scompariranno, del resto, dice il libro. Tutte le parole, dopo di noi. L’incanto inatteso, come si fa a descriverlo e fermarlo. Tutto sparirà ma non l’emozione di quel vestito che sembra una nevicata sulle Alpi, una slavina che nessuno sguardo ha visto mai. Non quella neve di velluto bianco. Non quel nodo rosso, che non sai come possa diventare un copricapo: è solo un nodo, in fondo. Non quei centocinquanta metri di seta che girano come un nastro attorno al corpo e tremano, vibrano come se l’abito fosse vivo. Non questa nuvola di piume che spiega quanto una pagina di filosofia antica come la bellezza sia fragile, evanescente e come sia invece l’unica cosa che conta e ci definisce. Magari sbaglio. Magari non saranno proprio questi gli abiti del mago a finire in un museo e dire a chi verrà dopo di noi chi eravamo, cosa siamo stati. Ma oggi mi sembra di sì e, nel dubbio, ve lo racconto.

Pierpaolo Piccioli

Pierpaolo Piccioli

E la storia di un momento prima, dicevo. Il mago è vestito di nero e tutti gli altri di bianco. Lui sta fermo, osserva. Gli altri si muovono veloci, seguono una coreografia che si ripete da decenni. Quel che lui fa, prova a fare, è fermare il vento. Un movimento, un attimo, uno spostamento d’aria. Qualcosa che sfida la gravità – la legge terrestre. Tutto, in questo spettacolo, parla di una sfida alla legge. La rispetta, certo. Ma la sfida. Tiene conto del tempo ma lo ferma in un refolo, ascolta l’oracolo e lo porta nel futuro. Le madonne di quel castello, per esempio. I loro veli. Diventano un segno del presente, qui, una coperta che ti ripara nella fuga.

La sfilata di Valentino Haute Couture è prevista per mercoledì 5, in Francia, in un celebre castello. Chantilly, il luogo dove immagino sia stata per la prima volta creata quella crema. Ma è uno qualunque, invece. “Un castello”, si intitola lo spettacolo. La storia ce lo dice: i castelli dei signori hanno scritto la storia, chi era fuori l’ha fatta. La sfilata sarà nel giardino. All’esterno.

Le sarte scendono dall’atelier una alla volta e mostrano quel che hanno saputo fare dai disegni. C’è un’arte antica, all’origine di tutto: una sapienza sartoriale arcaica. Ricamatori, tessitori unici al mondo. Poche persone, artigiani sublimi. L’ispirazione della collezione sono stati gli arazzi: forse la corsa di una ragazza ribelle, il pensiero di una madre, un’idea di libertà. Mesi di lavoro. Vediamo. C’è una gerarchia. Alcuni entrano, altri restano fuori. Solo la prima sarta può sistemare il vestito indosso al corpo della modella. Soltanto le sue mani possono toccare la stoffa. C’è, per esempio, una cascata di pietre bianche che non si appoggia a niente, apparentemente. Sta in piedi per miracolo sul corpo di questa ragazza straniera, esile, docile e però invincibile nella sua estraneità al rumore e agli sguardi, chissà cosa capisce delle voci: veste – impassibile – una cascata di pietre pesanti ma invece leggerissime che negano la gravità, dunque la legge umana e terrestre. Ogni abito ha una sigla. Ogni sigla comincia dalle inziali di chi ha cucito – Irene, Antonietta. L’approvazione, l’applauso, il silenzio eventuale. Dallo sguardo del mago dipende ogni cosa. (Un momento prima era per strada, il mago. Comprava calzini a dieci euro da un venditore che gli diceva no, bianchi non ce li ho, solo neri. Va bene, dammeli neri. Più lunghi? No, più lunghi no. Va bene, li prendo lo stesso. Grazie. E’ evidente che non li userà mai. Sorride al venditore, però. Poi, un momento dopo, entra nel regno delle sete e dei velluti. Porta al collo un angelo di corallo rosa appeso a un nastro rosso scuro).

L'Atelier Valentino

L’atelier Valentino

Lo devo raccontare con esattezza, questo momento: con calma. Dovete portare pazienza, ne varrà la pena. Gli spazi, in principio. La bottega del mago è una stanza lunga e stretta. Ci sono due tavoli ai lati lunghi, accostati alle pareti. E’ fitto di disegni, il muro. Decine e decine di schizzi: più di sessanta – quanti sono i vestiti che stanno per entrare. Uno specchio altissimo è appeso al lato corto del rettangolo, quello che dà sulla piazza. Lo specchio sta in mezzo a due finestre da cui entra la luce dell’estate. Nessuno guarda fuori: tutti guardano il mago. Sull’altro lato corto della stanza, quello opposto allo specchio, c’è una porta che dà su un’altra stanza che certamente dà su un’altra: si intravedono molte persone, si indovina l’apprensione, sono pronte ad accorrere se necessario ma non autorizzate ad entrare. Lui lo consentirebbe, se potesse. Anzi, una volta lo dice: “Entrate”. Ma lo dice per gentilezza. Sa bene che non possono. Il rito non lo prevede e il rito è legge. C’è un’altra porta, nella bottega segreta. E’ da lì che il mago arriva perché dietro a quella porta c’è la sua stanza, quella dove lavora. Non è molto grande. Non molto rispetto al palazzo magnifico, all’immensa sala di rappresentanza adiacente. Questa è quadrata, relativamente piccola e piena di meraviglie. Quasi nessuna delle cornici è appesa. Pochissime. Le altre sono poggiate a terra o sui mobili. Ci sono frasi autografe di persone mirabili, molte sono di Pier Paolo Pasolini che con lui condivide le iniziali. Ha una sua frase tatuata sul braccio.

Arrivano le sarte. C’è Yvan, accento sulla a, è francese, porta in testa una fascia da pirata, anche lui è vestito di nero: è l’alter ego del mago. Si capiscono a sguardi. Ci sono una decina di persone in camice candido. Non è destinata all’industria, questa sfilata. Non al commercio dei negozi. E’ una manifestazione di identità della comunità che porta questo nome. Racconta una storia: questi jeans, per esempio, vecchi celebri jeans riusati e ora adornati di foglie d’oro, devono essere stati dell’ultima figlia del signore del castello. Deve averli indossati scappando per uscire di nascosto una sera, i rami e le foglie degli arazzi si sono agganciati nella corsa. La primogenita ha invece il dovere dinastico di essere come quella Madonna, il dipinto preziosissimo della pinacoteca, ma il suo velo è rosso. Non azzurro come nell’originale, rosso. La figlia di mezzo ha una rosa attorno al volto. L’abito ha un disegno che sembra infantile, solo un tratto di arabesco. Ci vuole una vita a disegnare come un bambino.

La modella che uno dopo l’altro li indossa, chiamiamola Tania, è una giovane ucraina – paese che di questi tempi parla di guerra, evoca dolori. E’ nuda, talvolta nell’attesa si copre il seno con le braccia con un gesto istintivo, da ragazzina. La vestono di velluto di seta, di broccato di stelle, di seta rosso scuro. C’è una parrucca gioiello, poggiata sul tavolo. Un manto di pietre che volano come capelli di medusa. Il mago saluta le sarte una ad una. Nessuno conosce i loro nomi, dunque diciamoli. Si chiamano Irene Stranieri, Antonietta De Angelis (la decana, che ha ottant’anni e indossa sempre le stesse scarpe, al rito: le sue piccole appuntite décolletté nere), Alessandra Martini, Floriana Livrieri, Debora Zampa. Sono loro, anche loro, quel che chiamiamo Valentino. Le “premieres”, prime sarte. Centocinquanta metri di seta con le piume bruciate per diventare più leggere di una piuma. Un cachemire lavorato come organza. Corpetti, impalcature di tulle segreti, ganci e architetture che reggono abiti in dispetto di gravità. Tessuti come neve, aria che trema. Bordure invisibili, girate con le mani. Paillettes cucite una per una, a migliaia. Rose come corone. Piangono, le sarte, talvolta, quando i modelli si rivelano. Ma restano composte, piangono diritte asciugandosi la guancia con un gesto veloce. Il mago le applaude sempre, bravissima – dice – anche quando corregge gentile: qui si potrebbe forse togliere, qui scavare, alleggerire ancora. Che ne pensi, proviamo?

Pier Paolo Piccioli e le sarte di Valentino

Pier Paolo Piccioli e le sarte di Valentino

Si chiama Pier Paolo Piccioli, il mago. Oggi sono già tutti a Parigi, pronti al debutto. Ci saranno giudizi, ma non è questo che conta. Conta la felicità delle sarte, le lacrime di quel momento. Contano i secondi e i terzi che affacciati alla porta trattengono il respiro. Conta il silenzio rotto solo dai passi di Tania. Lo sguardo di acciaio della modella che a ogni cambio d’abito incrocia le braccia sul seno: contano la sua fragilità, la sua eternità. La nostra.