Questa intervista a Pierpaolo Piccioli è stata pubblicata per la prima volta nell’edizione cartacea di The Hollywood Reporter Roma, Corpo Libero. Il 22 marzo 2024 Valentino e Pierpaolo Piccioli hanno annunciato la fine della loro collaborazione. L’intervista è stata raccolta dall’ex direttrice di THR Roma Concita De Gregorio.
Cosa è bello?
Sono belle le persone. La loro unicità, la diversità di ciascuno, certi sguardi, certi sorrisi, le cose che non dicono. Quasi niente è bello o brutto in assoluto. Un abito è bello se corrisponde a chi lo indossa. Se lo porta con fierezza, allora è bella la fierezza. È bella, sempre, l’autenticità: l’emozione che suscita.
La bellezza di un abito dà potere?
Può darne molto, può persino curare. Può farti sentire chi sei e non sapevi di essere.
Ha fatto una mostra fotografica con le donne operate per tumore al seno. Donne di ogni età, nessuna di loro abituata a mettersi in posa. Le ha vestite con la collezione Pink. Un bilancio?
È stata una giornata incredibile. Siamo rimasti insieme dalle nove di mattina all’una di notte. Non sono un fotografo, scatto solo se trovo una ragione per farlo. In quel caso, ho capito mentre accadeva, volevo ascoltare. Bussare alle loro storie, affacciarmi. Mi ha fatto capire tanto di me. Nei giorni successivi non riuscivo a dormire: la potenza di quelle parole. Non sono cose di cui riesco a parlare né voglio farlo: le tengo per me con gratitudine.
Cos’è il Pink?
Monocromia: permette di vedere meglio in profondità. È come il bianco e nero: un film, una foto. Dopo un po’ ti dimentichi che non ci sono i colori e ti concentri su un gesto, un segno, il volto. Vedi oltre il colore, pur nella pienezza del colore. Vedi l’essenziale.
Ma il rosa non è nero, è rosa.
Era il colore stereotipo di un certo tipo di femminilità. Il segno di un colore dipende dal tempo. Nel Cinquecento il rosa era maschile perché veniva dalla porpora. Il manto della Madonna era celeste. Cambiare il senso di un colore, dargli un altro significato mi sembra rilevante. Togliere quell’immagine di femminilità remissiva, restituire potere alle donne sul terreno più arduo: il clichet. Questo è il Pink.
Qualcuno ha avuto da obiettare?
Sempre. Ma conta il risultato. Cosa arriva alle persone. Se dopo due anni sono pink anche le borse delle catene di supermercati allora qualcosa ha funzionato. Una sintonia con un bisogno, forse.
La nudità è strumento di seduzione o gesto di libertà?
Certamente è libertà. Ho fatto una collezione che pensavo come un giardino dell’Eden prima del peccato originale. Volevo liberare il corpo delle donne dallo sguardo desiderante, quindi giudicante. Se ti dicono ‘non ti devi scoprire, donna, così non sarai aggredita’ io non sono d’accordo ed è mia responsabilità partecipare a questo discorso pubblico.
Lei è femminista?
Il femminismo non è delle donne. Non devi fare parte di una minoranza per rappresentarla. O sei civile o sei incivile. Tutti siamo nella battaglia. Il mondo è brutto? Non voglio rifletterlo ma immaginarlo migliore. Sì, sono femminista. Ovviamente”.
Secondo lei bisogna spiegarlo? Mettere didascalie alle sfilate?
No. Il lavoro deve essere autoevidente. Quello che voglio dire passa attraverso quello che faccio. Se non sono riuscito a renderlo chiaro con un abito allora le spiegazioni sono inutili. Del resto non c’è differenza fra il mio lavoro e quello che sono. Distinguere sarebbe impossibile.
Diversità, inclusione. Cosa significano per lei.
Una responsabilità. Chi fa moda ha un potere molto grande. L’immagine è più forte delle parole. Ma devi essere credibile e per essere credibile devi essere autentico. È bello cambiare il cosiddetto senso comune coi fatti, non con i manifesti. In maniera sottile, non evidente. Non c’è bisogno di urlare. Deve cambiare la percezione, l’emozione: dopo arriva anche il pensiero.
Come mai al castello di Chantilly ha aperto la sfilata con una modella in jeans e camicia bianca?
Jeans e camicia bianca sono la cosa più democratica che esista, alla portata di tutti, il castello il luogo più esclusivo. Raccontare l’uguaglianza al castello è più forte che raccontarlo per strada. Ho usato il castello per parlare di democrazia.
Cosa significa per lei Lifestyle?
Poco. Lifestyle si usa per indicare chi ha in comune gusti per certi oggetti, mode, persone. Non lo trovo rilevante. Vorrei uscire dal Lifestyle ed entrare in una comunità: avere in comune talenti, passioni, ideali. E molto diverso, essere comunità.
Conta più il talento o l’abilità nelle relazioni?
Il talento, senza gara. Ma bisogna sapere di averlo il talento. La consapevolezza del talento vale quanto il talento stesso.
Cos’è la semplicità?
È complessità risolta.
E il nuovo?
È nuovo quello che non conosci. I figli sono una grande ispirazione perché mi permettono di vedere la realtà attraverso i loro occhi. Sono più aperti e liberi ma tante cose del passato non le sanno. Noi adulti abbiamo pensieri pregressi, spesso sono vincoli. Bisognerebbe riuscire a sapere molto, poi dimenticare tutto.
Meglio le favole o i sogni?
I sogni.
L’istinto o la ragione?
L’istinto. Ma l’ho imparato nel tempo. Dopo aver tanto frequentato la ragione ho capito che dovevo tenerla buona da una parte. C’è, ma interviene di rado. Solo se serve.
Nel lavoro: la fine o l’inizio?
È sempre un inizio che parte dalla fine. Comincio ogni collezione dall’errore della precedente. Nell’errore c’è un bivio e un’esitazione, ci torno e riparto. È molto importante per me procedere a ritroso: cominciare dalla visione finale. Voglio raccontare la morbidezza negli uomini, per esempio, e penso al cielo. A ritroso tutto si allinea. Diciamo quasi tutto (ride).
Il consenso o l’eresia?
Non puoi generare consenso se cerchi solo quello. Del resto, quando crei solo consenso non stai facendo niente di nuovo. Il progresso nasce sempre dalla rottura. Non adattarsi all’opinione degli altri. Chi si adatta non crea mai una nuova rotta, non suscita un desiderio. Al massimo, e di solito per poco, crea effimera popolarità per sé stesso.
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