Giuseppe Di Piazza, ospite a Giallo Limoncello: “O tu o lui non è solo un noir, è anche un romanzo d’amore. Per le proprie radici”

"Quando si scrive di Sicilia si scrive di famiglie", dice l'autore, "nonostante sangue e vendetta, ho voluto trasmettere una verità familiare e il legame con la terra, tra luci e ombre". A Roma all'enoteca Trimani presentazioni di libri gialli che raccontano l'anima di un territorio (con menù abbinato)

O tu o lui, nonostante il titolo minaccioso l’ultimo romanzo di Giuseppe Di Piazza “è un romanzo d’amore”. A dirlo è proprio lui, ospite della rassegna Nero di Seppia & Giallo Limoncello, una serie di cene letterarie create dalla giornalista e scrittrice Federica Fantozzi insieme alla liquorista Micaela Pallini nella storica enoteca di Carla Trimani a Roma.

Giornalista e scrittore anche lui, nonché fotografo, Di Piazza è tornato al noir col suo protagonista Sari De Luca, affascinante manager vissuto tra Milano e New York con un passato da siciliano di cui non sa molto. “Quando si scrive di Sicilia si scrive di famiglie”, dice l’autore, “e questo romanzo, nonostante il giallo, quindi il sangue, la vendetta, la fuga, è senza dubbio un romanzo d’amore, per le proprie radici e per la propria terra”. La terra della famiglia, l’origine di tutto. Sari De Luca è (più o meno) un alter ego dello stesso Di Piazza, che nel romanzo, complice la prima persona, ha compiuto un viaggio all’indietro, terapeutico e amoroso, verso le sue radici di siciliano, perché “il sangue non si cancella, anche le più piccole gocce sono tracce che portano sempre a noi”.

Giallo Limoncello con Giuseppe Di Piazza

La locandina

Giuseppe Di Piazza e luci e ombre di Palermo

Il territorio al centro del romanzo ha reso l’autore il candidato perfetto per la cena della rassegna, che, ricorda Federica Fantozzi, è pensata per scrittori e scrittrici che “fanno della loro terra, città, luogo, un personaggio della storia e non solo uno sfondo”. La presentazione è così accompagnata da un menu abbinato alla terra.

In O tu o lui, racconta Di Piazza, c’è la storia della sua famiglia dall’inizio fino al passato recente. “C’è una famiglia antica, quella dell’immigrazione, della disperazione, di tre bambini lasciati a Palermo alla fine dell’Ottocento, tra cui mio nonno. E poi tutto ciò che discende, fino a me”, spiega. “Ho voluto dare a questo romanzo, ovviamente di finzione, quella per me necessaria verità nelle relazioni familiari”.

La città di Palermo è anche un luogo di luci e di ombre. Le luci sono facili da individuare, c’è il sole, l’odore del mare portato dal vento, l’acqua azzurra del golfo, le ombre sono un insieme di morte e ricordi dolorosi. “Il pomeriggio di Sicilia lo sento nell’odore dell’aria, una sensazione che mi riporta indietro nel tempo alle giornate morbide di Barcellona”, scrive Di Piazza nel romanzo. “Io e Luis (il migliore amico del protagonista, ndr) in giro ad annusare la vita, una pausa tra gli stress del mio lavoro e le pene sentimentali del mio amico. Luis mi raccontava di sé e io odoravo l’aria, la brezza mediterranea, come quella che sento ora attraversando il piazzale dell’aeroporto Falcone-Borsellino. Un tempo si chiamava Punta Raisi, poi ci fu la stagione delle bombe”.

La Buca della Salvezza

Nel romanzo trova spazio anche la descrizione di luoghi poco conosciuti della città, come la Buca della Salvezza. Quest’ultima, una breccia nel muro di una cripta risalente ai tempi dei Borboni, è lo specchio delle vicende rocambolesche affrontate dal protagonista Sari. Lui infatti si trova, in modo inaspettato, costretto ad affrontare le peggiori ombre di Palermo: la vendetta della mafia siciliana. Dall’oggi al domani da manager diventa un fuggiasco. E fino all’ultimo cercherà di trovare il suo personale buco della salvezza.

“Tornare a Palermo è per me sempre un’avventura”, dice Di Piazza. “Io l’ho lasciata dopo cinque anni di lavoro al giornale L’Ora. Gli anni dal 1979 al 1984, cioè quelli della seconda guerra di mafia. Dall’omicidio di Stefano Bontade all’omicidio del giudice Rocco Chinici, e in mezzo Carlo Alberto dalla Chiesa, Boris Giuliano, e tutto quello può venire in mente. Cinque anni di sangue assurdo”, ricorda. “Sono scappato, prima a Roma poi una città dopo l’altra, vagabondando, perché ero ossessionato dalla morte. Lì ho ancora un po’ di famiglia, una piccola casa e un’enorme quantità di ricordi. Non tutti belli”.