Barbie, la recensione: benvenuti alla Barbie “definitiva” (perché Barbie siamo tutti noi)

Dalla citazione a 2001: Odissea nello spazio alla scoperta della depressione a Barbieland, l'attesissimo film di Greta Gerwig, sceneggiato con Noah Baumbach, è un manifesto di orgoglio femminista. Ma va oltre: è un film, giocoso, sulla parità

Questa Barbie è la Barbie definitiva. È quella del teaser trailer del film di Greta Gerwig, col riferimento a 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick che non solo è stato diffuso come video promozionale per la pubblicità della pellicola, ma è l’inizio di un film che ci mostra il mondo pre-icona, mai più stato lo stesso per tutte le bambine e le donne del pianeta. C’è stata Barbie dottoressa, Barbie fisica, c’è addirittura la vincitrice del premio Nobel (almeno nel film). Ma all’origine di tutto, quando Ruth Handler inventò il suo giocattolo per la figlia Barbara Millicent Roberts, da cui trae il nome la miniera d’oro della Mattel, la bambola era solo Barbie. Barbie stereotipo.

È la protagonista di Margot Robbie. L’attrice-Barbie per antonomasia. E non è una minimizzazione. È la bellezza che incontra il talento. È l’immagine che si unisce alla sostanza, al contenuto. Anche se a volte lei stessa potrebbe non vederlo. Per noi era chiaro che non potesse essere che lei. Perché per il film di Greta Gerwig – in sala dal 21 luglio, uno dei titoli più attesi dell’anno – serviva un’anima che sapesse raccogliere la “dissonanza cognitiva dell’essere donne”, che è ciò che le definisce e contraddistingue (“Questo pensiero l’ho avuto io!”, esclama sorpresa Barbie), che è esattamente il fulcro alla base dell’opera.

Piena di quel messaggio femminista che era ovvio aspettarsi, ma che si raddoppia e moltiplica nella moltitudine di personalità che invadono questa terra, fatta di tante Barbie (tutte uniche, anche nella loro normalità), tutti Ken (che devono solo scoprire chi sono veramente) e anche di tanti, spesso ignorati, Alan (il solo, nel film, è comicamente interpretato dal mitico Michael Cera).

Ogni giorno è il “miglior giorno” a Barbieland

Tutto cambia nell’universo di Barbieland quando Barbie stereotipo si sveglia una mattina angosciata da pensieri di morte. Ha anche i piedi piatti e la cellulite, ma questo lo scoprirà poco dopo. In quella sua quotidianità, in cui ogni giorno è “il giorno più bello”, Barbie si sente diversa, distante dalla spensieratezza con cui si approcciava alla sua realtà, in cui tutte le altre Barbie erano presidentesse, scrittrici e donne di successo, esempio di un femminismo che credono di aver trasferito nel mondo reale.

Fin quando il personaggio di Robbie non farà un viaggio “dall’altra parte”, scoprendo che le donne e bambine a cui hanno sempre creduto di parlare e che pensavano di aver ispirato, sono costrette a sottostare a un patriarcato che no, purtroppo non ha a che fare con i cavalli (come si renderà conto, sconsolato, il Ken di Ryan Gosling).

È nel discorso sulla parità – e soprattutto disparità – di genere, che Gerwig col co-sceneggiatore Noah Baumbach, compagno artistico e di vita, mostra con Barbie come sia il potere a fare da ago della bilancia di una società in cui spesso si ignorano le abilità, le conoscenze e anche i sentimenti degli altri, andando oltre la sola bandiera del femminismo.

Mostrando come ogni singolo essere umano (o giocattolo della Mattel) abbia il diritto di non essere dato per scontato. “Non si può essere perfetti, tutto cambia ed è bello, perché ci si può migliorare”, rivela il personaggio “umano” di America Ferrera a Barbie. Forse è per questo che si sentirà tanto vicina alle persone in carne e ossa dopo essere entrata in contatto col loro mondo.

Barbie, in tutta la sua normalità

Nella profondità di un discorso fondamentale che era ciò che volevamo e attendevamo da Barbie, la sorpresa del film non sta tanto nella sua anima politica e sociale, ma il fatto che venga inserita nella dimensione del gioco, amplificando il senso di intrattenimento e meraviglia della pellicola, che alleggerisce il tratto sia di Gerwig, che di Baumbach.

Non si credeva che i due autori potessero esseri così allegri, frivoli, leggeri. Pur rimanendo saldi ai propri ideali. È proprio attraverso la morte che Barbie comincia ad avvicinarsi alla “vita vera” – in fondo, si diventa grandi (quindi anche umani) quando si capisce di essere mortali – ma è evidente che “il rosa sta bene su tutto” e lo stesso vale anche per i due cineasti.

Se l’inganno del film, durante la sua fase promozionale, è stato che “lei può essere chi vuole, lui è solo Ken”, Barbie rivolta ancora una volta la prospettiva e dice: tutte sono solo Barbie. Tutti sono solo Ken. E in quell’essere “solo” si nasconde il bene più prezioso. L’amarsi nella propria normalità. Essere speciali, non dovendo sforzarsi di esserlo. Voler soltanto “indossare un bel top e sentirmi a mio agio a fine giornata”. E allora tiratelo fuori il vostro top più bello e andate al cinema. E ricordate che anche Barbie, una volta, è stata depressa. Perché Barbie (e Ken e Alan) possiamo essere noi. E Barbie è solo un film su Barbie. Con balletti anni Ottanta, battaglie sulla spiaggia e  “ville case mojo dojo”. E va bene così.