Natalie Portman, Christine Vachon e la roundtabile dei produttori: “Il segreto è amare ogni progetto. Soprattutto quando diventerà un inferno”

Nel dialogo con George C. Wolfe (Rustin), Tom Ackerley (Barbie), Scott Sanders (Il colore viola) e Ed Guiney (Povere creature), condividono le loro storie dal set e ciò che cercano nelle collaborazioni creative con soci e registi. La tavola rotonda di THR

Dal casting dell’amministratore delegato della società che finanzia il loro film per Barbie alla ricostruzione di uno dei momenti più iconici della storia americana del ventesimo secolo con 47 gradi all’ombra sul set di Rustin, i produttori dei film di questa stagione dei premi hanno dovuto affrontare la loro parte di situazioni scomode, insostenibili e del tutto incredibili per portare i film sul grande schermo.

Nonostante gli alti e bassi, non c’è posto in cui preferirebbero essere che sul set. “Mi sembra che il cinismo sia l’assassino della creatività. È la cosa che distrugge tutto”, afferma Christine Vachon (Past Lives e May December), che insieme a Tom Ackerley (Barbie), Ed Guiney (Povere creature), Natalie Portman (May December), Scott Sanders (Il colore viola) e George C. Wolfe (Rustin) si è riunita a Los Angeles per la tavola rotonda dei produttori di THR.

Qual è stato il consiglio che avete ricevuto all’inizio della vostra carriera cinematografica e che vi è rimasto impresso?

GEORGE C. WOLFE: Quando partecipi a un progetto, assicurati che dentro di te ci sia una parte che lo ama profondamente, perché a un certo punto diventerà un inferno ed è a quello che devi aggrapparti per spingerti avanti.

TOM ACKERLEY: Ricordo che la produttrice premio Oscar Dede Gardner mi disse: “Il gusto è l’unica moneta che si può scambiare”. Ci ha aiutato molto a non prendere decisioni per motivi strategici o finanziari. Bisogna fare un film solo perché si pensa che quel film sarà il migliore possibile.

CHRISTINE VACHON: Non conoscevo molti produttori quando ho iniziato, quindi questo è un consiglio che mi sono data nel corso degli anni: una crisi è tale solo quando qualcuno si fa male. Tutto il resto è solo una spina nel fianco, una sfida, un problema. Ma l’unica ragione per usare quella parola è quella.

SCOTT SANDERS: È una maratona, non uno sprint. E quello che ha detto George lo condivido: bisogna interessarsi alla storia. Devi tenere ai personaggi, al protagonista e al loro viaggio, francamente, perché è un lungo lavoro. Devi spegnere piccoli incendi ogni giorno. La giornata non va mai esattamente come era stata programmata quando ci si sveglia la mattina.

Sanders, lei lavora con Il colore viola da molti anni.

Venticinque anni.

Ha portato il libro sul palcoscenico e ora il musical sullo schermo. Ci sono state persone che hanno avuto bisogno di essere convinte che l’opera di Alice Walker potesse vivere attraverso diverse forme di espressione?

Molte persone avevano bisogno di essere convinte. Il colore viola non sembra, in apparenza, una storia da cantare e ballare a Broadway. E se si pensa al costo di un biglietto per Broadway, la sfida diventa ancora più ardua. L’anno in cui Il colore viola ha debuttato a teatro, l’affluenza del pubblico afroamericano era pari al 3,8% del totale.

Così molte persone – George (C. Wolfe, ndr) lo sa – mi hanno detto: “Questo spettacolo non venderà mai. Non c’è pubblico”. Io credevo semplicemente in Celie. Non volevo ascoltare i no. Voglio dire, ogni tanto un no è utile, ma molto spesso è basato sulla paura o sulla mancanza di conoscenza, o sull’incapacità di capire un obiettivo.

A volte ci si sente molto soli. Può essere una professione molto solitaria, questa.

Quando ha chiesto ad Alice Walker di fare un musical, ha risposto subito di sì?

È stata un no veloce. Sono andato a Berkeley e lei mi ha detto: “Sembri un ragazzo molto gentile e intelligente, ma no”. Sono tornato a casa, ho aspettato un paio di mesi, l’ho chiamata e le ho detto: “Posso portarti a New York e passare una settimana a parlare del perché penso che sia giusto farlo?”. E lei ha risposto di sì, il che è stata la svolta.

Todd Haynes ha detto di essere stato avvicinato da lei, Portman, per la regia di May December. Come ha capito che era il regista giusto per questo film?

Volevo lavorare con Todd da molto tempo, Christine (Vachon, ndr) lo sa. Sono anni che mando a entrambi i copioni. Mi hanno sempre detto di no e credo di essere una golosa di rifiuti.

Quando ho letto la sceneggiatura, ho visto che trattava molte delle domande sulla performance e sull’identità che credo Todd abbia esplorato in molti film che amo e che lui e Christine hanno fatto insieme – Safe, Lontano dal paradiso e Io non sono qui. Si tratta di questioni che riguardano il modo in cui costruiamo noi stessi in vari aspetti della performance. Ho pensato che avrebbe potuto accettare, e l’ha fatto. È stata la più grande fortuna della mia vita.

A parte Haynes, con cui lavora da decenni, Christine Vachon, lei lavora spesso anche con registi esordienti.

Non è facile perché, soprattutto quando questo mondo diventa più avverso al rischio, e lo è, scommettere su un regista esordiente diventa sempre più difficile. Il motivo per cui Killer (Films, la casa di produzione di cui Vachon è co-fondatrice insieme a Pamela Koffler) continua a farlo è, innanzitutto, l’antinomia con il cinismo.

Credo che il cinismo sia l’assassino della creatività. È la cosa che distrugge tutto. E quando lavori con un regista esordiente, non puoi essere cinico perché di solito sta raccontando la storia che ha aspettato tutta la vita di raccontare. In particolare, una persona come Celine Song (regista di Past Lives) è una narratrice straordinaria, qualcosa che non si può insegnare. Potrei insegnarle a leggere un foglio di convocazione, cosa che abbiamo fatto insieme. Ma questo è facile. Lei invece conosceva la storia che voleva raccontare.

Una scena di Past Lives di Celine Song

Una scena di Past Lives di Celine Song

Ackerley e Guiney, Barbie e Povere creature! in un certo senso si somigliano. Entrambi hanno grandi e complicate scenografie e personaggi. Quando avete letto le vostre sceneggiature per la prima volta, c’era qualcosa che vi ha colpito e che vi ha fatto dire: “Non è possibile”?

ACKERLEY: Mille cose, sì. Voglio dire, si iniziava con l’uccisione di un dirigente della Mattel (nell’epica battaglia che coinvolgeva i giocattoli), e poi si passava dal “fascismo” alla ginecologia. Ricordo che quando Margot (Robbie, moglie di Ackerley e produttrice insieme a lui, ndr) e io abbiamo ricevuto la sceneggiatura eravamo seduti sul divano, e non dimenticherò mai che la leggevamo e ridevamo e piangevamo e ogni sei pagine ci giravamo intorno dicendo: “Non succederà mai. Come faremo a farlo?”.

Alla fine, il processo cinematografico si basa sulla fiducia. È stato un lungo processo con la Mattel e la Warner Bros. per realizzare il film, ma hanno avuto fiducia nel processo e nella visione di Greta Gerwig. E credo che come produttori la cosa principale da fare sia fidarsi del proprio regista e di quello che Gerwig avrebbe fatto con quel film, e siamo riusciti a convincere i nostri partner più grandi di questo e abbiamo accettato.

GUINEY: Con Yorgos Lanthimos avevo già lavorato per The Lobster. E già dieci anni fa lui aveva letto il libro di Povere creature! consigliando a tutti di leggerlo. Dopo il successo de La favorita è stato più facile lavorare su questa storia.

Emma Stone si è unita al progetto e questo è stato l’elemento che ha sbloccato la situazione. È stato un atto di fede.

Wolfe, nel suo film c’era una scena particolarmente difficile: la Marcia su Washington. Come ha fatto a ricreare qualcosa di così iconico?

L’abbiamo dovuto fare tre volte. Le regole per le riprese al Lincoln Memorial (il monumento nazionale da cui Martin Luther King pronunciò il suo discorso I Have a Dream, ndr) sono numerose e ferree. Siamo partiti con circa 30 camion da Pittsburgh, ma abbiamo dovuto annullare tutto per il Covid. Dopo aver ricominciato la procedura di autorizzazione siamo tornati una volta terminate le riprese del film. Covid, di nuovo.

A quel punto non c’era disponibilità immediata, potevamo tornare solo in agosto. Ma il film era montato, sapevamo esattamente cosa ci serviva e cosa mancava. Inoltre la vera marcia del 1963 avvenne ad agosto. Quella volta c’erano 28 gradi, durante le riprese 47.  E al Lincoln Memorial, quando il sole rimbalza sul marmo bianco, può essere un problema per le luci sugli attori. Avevamo anche 500 comparse e i vestiti di lana, perché era quello che avrebbero indossato nel ’63.

È stato complicato e disordinato, ma alla fine è stata un’incredibile benedizione, perché eravamo una squadra perfetta e impeccabile. È stato glorioso e meraviglioso, e anche terrificante a causa del caldo, ma sì, ripeto, è stato glorioso.

Molti di voi hanno lavorato con gli stessi collaboratori in più film. Come si fa a capire se si è trovato un partner creativo per tutta la vita?

GUINEY: Spesso penso di essere più interessato alle persone che alle idee, se questo ha senso. Se si entra in contatto con la mente di una persona e si instaura un rapporto basato su questo, allora si resta con lei per un lungo periodo. I registi con cui ho lavorato, Yorgos o Lenny Abrahamson o Joanna Hogg, non li do mai per scontati. So che la volta successiva dovrò fare nuovo lavoro e farlo molto bene.

ACKERLEY: La nostra società è nata per amicizia (Josey McNamara ha fondato LuckyChap insieme ad Ackerley e Robbie). Ora abbiamo compiuto 9 anni. Il motivo per cui è stata così longeva è che fin dall’inizio abbiamo avuto una visione molto chiara: film al femminile e narratori al femminile.

A prescindere dalla grandezza dei film, abbiamo un’idea molto chiara di quello che vogliamo fare e di quello che vogliamo ottenere. E questo non cambierà e non è cambiato.

VACHON: Nove anni sono belli. Sto con Todd da 30 anni e sto con la mia socia in affari, Pam Koffler, probabilmente dallo stesso periodo di tempo. La collaborazione con Pam mi permette, per molti versi, di avere la collaborazione con Todd, perché mi garantisce una straordinaria stabilità. E una delle cose che direi di queste collaborazioni è che è meglio non avere gli stessi gusti.

Entrambi avete gusto – dovete avere gusto – ma ci sono diversi tipi di gusto. Trovo che mi rinvigorisca e mi svegli quando a Pam piace qualcosa e mi costringa a guardarla di nuovo e a dire: “Oh, ok. Capisco perché ti piace. Ho capito”.

I rapporti con i registi sono quasi un’altra cosa. Il rapporto tra un produttore e un regista si basa su tante cose: la fiducia, la complicità creativa e la capacità, credo, di un produttore di spalare la neve fino a un certo punto e di aiutare un regista a trovare il luogo in cui può fare il suo lavoro migliore. Ma avere una socia come Pam mi ha cambiato il lavoro.

Wolfe, riprendendo quello che ha detto Christine Vachon sui rapporti tra produttori e registi…

Ero entusiasta di lavorare con me stesso! (È regista oltre che produttore di Rustin, ndr).

Cosa spera o cosa cerca in un partner produttivo?

Un senso di sicurezza quando ti avventuri nel vuoto. Si cerca anche di creare un luogo incredibilmente sicuro per gli attori, in modo che possano scendere liberamente e con gioia dalla scogliera e scoprire qualcosa di sorprendente e meraviglioso. Il senso di sicurezza è molto importante e la sensazione di sentirsi protetti. Non di obbedire, perché c’è una certa dinamica di messa in discussione.

Portman, come attrice-produttrice, ci sono momenti in cui uno di questi ruoli è in conflitto con l’altro?

Dopo 30 anni di carriera da attrice, iniziare a produrre è molto gratificante perché, quando reciti, sei protetta e puoi concentrarti sulla tua arte senza renderti conto di tutta la follia che sta accadendo. Ma poi, una volta dietro la macchina da presa, ti viene da pensare: “Oh mio Dio, non posso credere che siano successe tutte queste cose”, e ti rendi conto che puoi contribuire a creare l’ambiente in cui vuoi lavorare.

È molto utile capire che ci sono problemi che sei in grado di risolvere effettivamente.  Qui però nasce anche il conflitto, perché tu sai un sacco di cose e gli altri attori non devono saperle.

Parlando del casting, per Il colore viola Sanders ha avuto a disposizione decenni di cast di Broadway da cui attingere, e oltre. Come ha scelto la protagonista?

Celie è stato uno dei ruoli più difficili da scegliere. C’erano molte opzioni e molte conversazioni in merito. Celie è una persona per cui si vuole fare il tifo e Fantasia Barrino è una persona per cui si vuole fare il tifo. E lei ha davvero il dna di Celie dentro di sé, nella sua storia personale.

Il casting è stato fatto durante il Covid, quindi non c’è stato nessun provino di persona. È stato il processo di casting più strano che abbia mai affrontato. Le persone si autoregistravano e c’erano degli incontri su zoom. E  verso la fine, Blitz (Bazawule, regista, ndr) ha detto: “Andrò in North Carolina per incontrare Fantasia, personalmente, per prendere la decisione finale”. È così che è successo.

Fantasia Barrino in una scena di The Color Purple

Fantasia Barrino in una scena di The Color Purple

Rimanendo in tema di casting, Ackerley, ha avuto l’interessante situazione di scegliere l’amministratore delegato della Mattel, quando la Mattel è un produttore del suo film. Come è andata?

Ci siamo seduti con la Mattel per la prima volta e abbiamo detto loro che saremmo diventati ambasciatori di Barbie e che volevamo onorare il marchio, ma anche essere in grado di raccontare il film che volevamo. Siamo stati molto chiari su questo punto. Ma è stato il genio di Greta Gerwig a portare l’amministratore delegato della Mattel nel film.

C’erano così tante cose in quella sceneggiatura che, col tempo, siamo riusciti a far accettare alla Mattel. Realizzare Barbie per noi è stato come scalare l’Everest, è stato il film più grande che abbiamo mai fatto, e siamo stati in grado di parlare del film insieme a Greta Gerwig in un modo che non avevo mai potuto sperimentare prima. E questo, mentre si discuteva con la Mattel e la WB, è stato di grande aiuto.

Per quanto riguarda Will Ferrell, è stato perfetto. Voglio dire, chi altro potrebbe farlo? Nessuno può odiare Will Ferrell.

È chiaro che per fare un film è necessaria molta tenacia, ma come si traduce questo nella vita privata? Esiste un equilibrio in questa professione?

VACHON:  La prima volta che qualcuno me l’ha chiesto, mi sono chiesto: “Ma cosa vuol dire?”. Ho l’impressione che la nuova generazione di persone che si affacciano al mondo del lavoro lo stiano ristrutturando in modo tale che alcuni di noi – e mi ci metto anch’io, non tutti hanno la mia età – si sentano un po’ come “ai miei tempi”.

Ma apprezzo molto anche questa sensazione di capire che dobbiamo lavorare sodo, che queste cose non accadono da un giorno all’altro, ma che dobbiamo anche trovare un modo per bilanciare ogni cosa. Provo molto piacere nel mio lavoro, una delle cose che mi ha fatto superare la pandemia, onestamente.

ACKERLEY: Quando si inizia un progetto, ci si consuma al cento per cento. Ma è proprio questo il bello: come nel caso di Barbie, in particolare, la pressione di fare quel film e di affrontare un’eredità di 64 anni con la bambola più famosa del mondo, l’investimento finanziario dello studio e mettere in gioco le carriere di tutti.

C’erano un milione di modi in cui avremmo potuto sbagliare il film, ma il fatto di essere così coinvolti e la gioia di farlo, faceva sì che fosse una festa ogni giorno.

Avevamo così tanti riferimenti cinematografici per Barbie, la domenica mattina mettevamo in scena quella che chiamavamo “la chiesa del cinema”. Ogni domenica, durante la preparazione e le riprese, riunivamo la troupe e guardavamo qualcosa alle 11 di domenica mattina.

Ha un film preferito della “chiesa del cinema”?

Playtime – Tempo di divertimento è forse uno dei preferiti.

Vachon, in quanto sostenitrice del cinema indipendente, cosa risponde a chi si lamenta della fine del cinema indipendente?

Ma è questo che stanno lamentando o stanno parlando della fine dell’esperienza in sala? Perché, secondo me, quello che è diventato davvero torbido è: che cos’è un “film indipendente”? Direi che tutti noi qui abbiamo fatto film con Studios che avevano anche un elemento indipendente. Facciamo film utilizzando prevendite estere, investitori azionari, Studios, a volte tutti e tre.

Quindi penso che a questo punto decidere cosa sia un film indipendente sia difficile. In un certo senso dico solo che è il risultato di una visione unica. Perché non so proprio cos’altro dire. Un milione di anni fa ho fatto un’intervista con il produttore Larry Gordon (della saga Die Hard), in cui siamo stati intervistati insieme e lui ha detto: “Pensavo che un film indipendente fosse un film che portavi sul mercato”. E io gli ho risposto: “Sì, è una definizione che va bene come un’altra, quando si va al sodo”.

Quindi, in un certo senso, la sua domanda riguarda l’esperienza della sala, con la quale siamo tutti alle prese, direi. Non parlo per tutti voi, ma so che io sono alle prese con questo problema e sto cercando di capire quello che rende qualcosa “adatto alla sala”. Quanto è importante sostenere quell’esperienza e che cosa dobbiamo fare come produttori per mantenerla attuale?

Cosa pensa che sia?

Quando ho iniziato, la sala era tutto ciò che avevamo a disposizione, quindi non dovevamo pensarci più di tanto. Succedeva e basta, era una parte del processo. Adesso si tratta piuttosto di formare un istinto diverso che forse non avevo all’inizio della mia carriera.

In termini di cinema quest’anno, non c’è stato niente di più grande di Barbie. Ackerley, in quale momento hai capito che sarebbe stato il successo che è diventato?

ACKERLEY: Credo che non si possa mai sapere finché non lo si vede.

GUINEY: E neanche allora.

ACKERLEY: E neanche allora. Sto ancora cercando di capirlo. Il primo weekend di apertura eravamo a Londra, Margot e io, andavamo di cinema in cinema e abbiamo visto le file. Ricordo sempre la storia di Spielberg e Scorsese che, quando uscì Lo Squalo, fecero il giro dell’isolato per controllare le file al botteghino. Non pensavo che potesse esistere ancora una cosa del genere. Ma noi le abbiamo viste.

Abbiamo visto le file “tinte” di rosa e abbiamo visto come persone diversissime tra loro hanno condiviso quell’esperienza. Ed è stato semplicemente un’esperienza che ha aperto la mente. È stato incredibile. Dimostra che, per quanto sia difficile o lungo un film, riunire le persone per due ore è qualcosa che fa venire la pelle d’oca.

GUINEY: Credo che quel fine settimana sia stato davvero significativo, o almeno spero che sia stato un fine settimana davvero significativo per il cinema e per l’esperienza in sala. Dicevo a Tom che abbiamo gestito dei cinema in Irlanda e la settimana di Barbenheimer, scusate se mi permetto, abbiamo avuto il 50% di persone in più all’ingresso rispetto a qualsiasi altro fine settimana. È stato un fenomeno assoluto.

SANDERS: George e io abbiamo iniziato la nostra carriera in teatro e abbiamo conosciuto la magia di un’esperienza collettiva. Non c’è niente di simile.

WOLFE: E la potenza della scala. La mia analogia è che quando si è a teatro e uno spettacolo funziona, ci si piega in avanti. Quando si guarda un film e il film funziona, ci si piega all’indietro, a causa della scala. Perché, vedete, a teatro i personaggi sono grandi come voi. Riconosco quello che è. E poi, nel film, ti dici: “Sono più grandi di me” e “Posso trovare la mia strada nella loro storia?”.

Una scena di Barbie di Greta Gerwig, record al box office

Una scena di Barbie di Greta Gerwig

Qual è stato il film che vi ha fatto venire voglia di fare film?

SANDERS: Il mago di Oz.

WOLFE: Nashville. Un film poteva essere ridicolo, politico ed emotivamente fragile. Era straordinario senza sforzo. A un certo punto Robert Altman mi chiese di scrivere un film per lui. Aveva visto uno spettacolo a Broadway che avevo fatto, intitolato Bring in ‘da Noise, Bring in ‘da Funk, e voleva che creassi qualcosa di comico. Erano conversazioni straordinarie, ma no. Un onore per me, ma dissi no.

PORTMAN: Bring in ‘da Noise era molto importante per me. A 8 anni facevo la fila per prendere i biglietti. Io e i miei genitori ci siamo andati tre o quattro volte.

SANDERS: È lo spettacolo a cui ho portato Alice Walker, il primo a cui l’ho portata a New York quando eravamo insieme. E alla fine di quella settimana ha detto sì al musical de Il colore viola. Per fortuna.

PORTMAN: Safe è stato un film davvero molto importante per me, sia come film che come performance. Sono rimasta così colpita da quanto ho potuto riconoscere un’esperienza per la quale non avevo parole – e per cui non le ho trovate nemmeno dopo. Era solo una sensazione. Era un tono di vita che mi ha fatto capire le cose in un modo diverso, che mi ha ampliato la mente e l’anima.

GUINEY: La cosa che mi ha fatto pensare che tutto questo è possibile è stato Il mio piede sinistro, il film di Jim Sheridan. È stato come se l’Irlanda avesse vinto la Coppa del Mondo.

Era molto eccitante perché non c’era una grande storia di cinema in Irlanda, e l’idea che questo film, che era intensamente irlandese, potesse fare strada era meravigliosa.

ACKERLEY: Ho capito che volevo lavorare nel cinema quando sono entrato sul set di Harry Potter. Ho avuto modo di vedere, nella mia prima adolescenza, Alfonso Cuarón all’opera. (Ackerley è stata una comparsa sul set di Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, ndt).

Ho avuto modo di vedere le dimensioni di tutto ciò che sta dietro la macchina da presa. E allora ho pensato: “È quello che farò”. Avevo 12 o 13 anni e provo ancora quella sensazione quando entro sul set.

VACHON: Il film che mi ha fatto decidere che volevo fare la produttrice è stato l’altro film di Barbie, Superstar: The Karen Carpenter Story, che è stato il primo cortometraggio di Todd. Non l’ho prodotto io, ma l’ho aiutato a finirlo. L’ho aiutato a finirlo, quindi l’ho visto in sala di montaggio e ho avuto un’illuminazione. Era così provocatorio, così originale, ma divertente.

Ho capito che quello era il nesso, quello era il punto in cui volevo essere, e allora mi sono girato verso Todd e gli ho chiesto: “Cosa farai dopo?”.

Cosa sareste oggi se non foste produttori e registi?

WOLFE: Sarei uno storico.

VACHON: Sarei una cuoca di quartiere.

SANDERS: Stavo per dire ristoratore.

VACHON: Vedo che hai visioni più grandi delle mie.

SANDERS È mettere insieme tutte queste cose e poi cercare di soddisfare un pubblico.

PORTMAN: Forse sarei una madre a tempo pieno, perché mi sembra che le competenze siano molto simili: assicurarsi che tutti siano sostenuti, in modo che possano diventare se stessi al meglio.

GUINEY In realtà non lo so, ma mia madre e mio padre erano medici. Stranamente, molto presto ho avuto l’istinto di voler produrre. Ero adolescente. Ma poi, quando ero un po’ più grande, verso i 20 anni, ho pensato: “Dio, avrei dovuto farlo? Avrei dovuto fare il medico?”. Ma non so se sarei stato un buon medico.

PORTMAN: Non sarebbe stato un regista?

GUINEY: No, non un regista. Non ho la pazienza per farlo.