Napoli e il terzo scudetto, il film perfetto. Con tanto di festa kolossal al Maradona

Produttore Aurelio De Laurentiis, sceneggiatore Cristiano Giuntoli, regista Luciano Spalletti, poi un cast corale alla Altman, di qualità e perfettamente messo in scena, pardon in campo, in cui spiccano le due giovani star Osi e Kvara. Storia del capolavoro calcistico, ma anche cinematografico che si chiama SSC Napoli

Difficile non amare e apprezzare l’epopea del Napoli che ha saputo conquistare lo scudetto con una stagione epica.

Eppure il calcio italiano ci riesce, irritato, come tutto il paese, dal fatto che la bistrattata e maledetta Napoli si sia scoperta modello virtuoso, economico e sportivo, lontano dagli stereotipi pizza, camorra e mandolino tanto cari sopra il Po. Ma pure sotto. Perché la storia la scrivono i vincitori, ma in Italia lo fanno quelli che dicono, anzi pensano di esserlo. 

Per questo che il film perfetto del calcio italiano sia stato scritto, prodotto, girato e interpretato tutto a Napoli, con un cast internazionale e giovanissimo e un budget limitato, che sia campione d’incassi e premiato dalla vittoria più importante, riconosciuto dalla critica più esigente come spettacolare, spiazza quelli in buona fede e irrita quelli in malafede.

Sembra un film di Robert Altman, dove ogni scelta di cast e nei ruoli artistici principali è originale e mai banale, a volte per contrasto e altre suscitando scetticismo. Poi le metti insieme, e scatta la magia.

Il Napoli, anzi il Napul3, di Aurelio De Laurentiis

Troppo arrogante e per alcuni “cafone” Aurelio De Laurentiis, re del trash natalizio per la vulgata ma anche distributore di Crash, film premio Oscar, e dell’ultimo Mario Monicelli, per tacere del sodalizio di lungo corso con Carlo Verdone. Nel calcio, per un certo gusto della provocazione, ha trovato gli stessi pregiudizi che lo colpiscono al cinema, rendendolo di volta in volta, un buono o un cattivo bidimensionale.

Luciano Spalletti dopo anni da non protagonista più bravo dei protagonisti, di quelli che li applaudi a scena aperta ma poi premi altri, perché lui è di quelli che non ti telefona o ti scrive per blandirti, si prende la scena girando il suo capolavoro, regista capace di gestire il focoso e un po’ megalomane produttore, così come un cast giovane e di talento. Ma il caratteraccio – per chi tifa Napoli, Ottavio Bianchi, in confronto a lui, ha esultato smodatamente – e una certa incapacità di piacere alla gente che piace (o che pensa di piacere), rischia di non valorizzarlo quanto meriterebbe.

Va detto che se in sceneggiatura non ci fosse stato Cristiano Giuntoli, direttore sportivo che portò il Carpi dalla D alla A, ora non parleremmo di miracolo sportivo e non solo (altra retorica un tanto al chilo: al Nord è buona programmazione, al Sud anche se il modello Napoli resiste da 19 anni, di cui 14 consecutivi passati a qualificarsi in Europa, dev’essere merito di qualche divinità, il primeggiare). Lui ha scritto i personaggi e ha suggerito chi dovesse interpretarli, lui ha tirato le fila di una trama complessa, lui ha capito il tycoon e l’autore e ha saputo metterli d’accordo. Lui ha costruito il cast, di concerto col regista, non sbagliando nulla. Lui, dopo Napoli-Fiorentina, sembra aver salutato con una battuta da film “non pensate al futuro, Napoli sarà sempre grande con Aurelio De Laurentiis”. Neanche Via col Vento, per la serie “domani è un altro giorno”.

Ma è cinema, anche la città di Napoli che esulta, che si dimostra degna della maturità della squadra e della società, con festeggiamenti entusiasti ed estatici ma sobri.

Vi diranno che non è così, che ci è scappato il morto. Sì, perché il giornalismo in Italia fa così, accarezza i pregiudizi (gli stupri degli africani, l’omicidio del clandestino, il napoletano che muore per futili motivi) e non verifica. E pensare che c’era già tutto in quel “noto alle forze dell’ordine” e che in poche ore si è scoperto essere, il morto, vittima sì, ma di un regolamento di conti criminale. I 23 feriti lievi (che diventeranno 200 per molti, ma non si trovano cifre ufficiali di questa portata), sono nella media di Spagna, Francia e Inghilterra, ma non vi diranno neanche questo. Poi certo, ci sono città che non festeggiano (e comunque un paio di dozzine li mandano all’ospedale con meno di 30 giorni di prognosi, ma le redazioni non si curano di quei numeri), ma che per vedere una finale su un maxischermo, morti e feriti li fanno eccome. Ma lì è una tragica fatalità, anche quando la giustizia dice altro. 

Storia della gioia per uno scudetto annunciato

Chi scrive, però, c’era. Giovedì sera, a Case Nuove, in periferia, al Club Maradona. Dove napoletani residenti e argentini in vacanza – nella notte scoprirò che ce n’erano centinaia che avevano pianificato le vacanze a Napoli sperando di intercettare il terzo scudetto degli azzurri – ballavano insieme. Per ore, fosse la colonna sonora la napoletanità più selvaggiamente neomelodica, Massimo Ranieri, i Gipsy King o La mano de D10S, con tanto di variante della cover italiana di Dario Sansone, un capolavoro imperdibile. Dario, peraltro, una delle colonne di Mad Entertainment, altro modello virtuoso che cambia il senso profondo e la percezione della città, peraltro con la sede nel palazzo in cui si girò L’oro di Napoli.

Maradona, già. Onnipresente: nella musica, sulle bandiere, nelle parole, nelle preghiere dopo il gol di Lovric dell’Udinese che sembrava rovinare di nuovo la festa. Maradona, che tutti baciavano di nascosto, perché una foto, una figurina, noi tifosi azzurri, di D10S, la teniamo tutti. Diego è la divinità laica a cui in questi mesi si è chiesto il permesso di vincere. Sì, perché siamo così felici per un motivo: nessuno di noi pensava davvero sarebbe successo. E in parte, andava bene così. Andava bene così che i due scudetti, gli unici della storia, facessero capo a Diego Armando Maradona. Un terzo rischiava di dissacrare il suo regno in terra. Ecco perché tutti vediamo la mano de D10S su questo scudetto, perché senza di lui non si può vincere. Non possiamo vincere. Non vogliamo che vi sia gioia e bellezza senza di Lui, semplice.

Là, a Case nuove, mangerò, senza pagare perché chi ha portato cibo per sfamare una strada intera lo fa per condividere, non per lucrare. Ci proverò, ma minaccerà di offendersi e come ogni buon napoletano (qualche archetipo ha ragion d’essere, va detto), mi rimpinzerà perché l’ospitalità non è mai abbastanza. Il gol dell’Udinese dopo un quarto d’ora silenzia la città per un attimo, da film postapocalittico, poi Napoli torna subito a vivere. Il pareggio di Osimhen, il gol scudetto, è l’effetto speciale che simula un terremoto. 

Napoli e la festa del terzo scudetto

Alla fine è gioia pura, totale e totalizzante, due uomini separati da un oceano che in mezzo a bambini ed energumeni, con lo stesso grado di innocenza e purezza per una volta, piangono inginocchiati in una scena madre degna di un film con Nino D’Angelo (ne parlo da fan). Ok, uno dei due sono io, quello che singhiozza ricordandosi delle trasferte a Sora con la sorella malata azzurra quanto lui, del dolore del fallimento vissuto a Piazza dei Martiri, delle umiliazioni degli anni ’90, dei colpi di scena di film sempre uguali in cui la storia sembra nuova ma il finale è sempre lo stesso – vince la Juventus e di solito con il trucco, perché lo sceneggiatore pigro ha barato e non ha rispettato il suo pubblico -; lui, Manuel, mi abbraccia dolcemente e stretto dicendomi “siamo campioni”. E poi arrivano altri. Un capannello di persone a consolare e proteggere quel pianto, una sorte di rituale tribale, una scena madre un po’ enfatica, ma a giudicare dalle urla e dalle corse al triplice fischio finale, abbiamo superato il limite massimo della scala Muccino.

E poi tutti in pellegrinaggio. Stazione Garibaldi, Piazza Borsa, Via Toledo, Piazza Municipio, Piazza del Plebiscito. Sì, lo so, non devo descrivervele, negli ultimi anni cinema e tv hanno invaso Napoli, scoprendone la bellezza che era chiara a tutti, ma non a chi la odiava per partito preso.

Nel frattempo passano ultras a petto nudo. Incutono timore, con la sola presenza. Si aprono in un sorriso e prima di una serie di cori che sinceramente replicherei in un concerto solenne nella Cavea dell’Auditorium di Roma per tutta l’estate, cantano la canzone di Mare Fuori. Dimostrando quanto quest’ultima sia un fenomeno di costume ma pure di esserne appassionati spettatori. Continuiamo a non pagare, se non le quattro (4) bandiere: una per mia sorella, una per l’amico con cui ho condiviso quasi tutti i dolori da tifoso e qualche gioia, una per la mamma napoletana di un mio fratello romanista. 

Continuiamo a cantare e ballare. Ad abbracciarci tra sconosciuti. A scuotere la testa. A stupirci di una festa bambina, con i festoni, è vero, montati da settimane, ma con un copione improvvisato, non ci sono macchine tinte d’azzurro come nel primo scudetto o striscioni (finora) al cimitero che diventeranno titoli di libri. C’è una gioia sincera, liberatoria, partecipata, civile.

Mentre a Udine e Verona volano cinghie e pestaggi verso napoletani che esultano e nel civile Nord c’è una sorta di caccia all’uomo, a Napoli si fa la fila per entrare a Piazza del Plebiscito senza problemi o prepotenze, ultras a torso nudo rincorrono ragazzi perché è cascato loro lo smartphone, c’è solo comunione di lacrime e risate, di cori e battute. Ho passato ore a festeggiare in mezza Napoli: o sono stato fortunato, o ci hanno raccontato idiozie. Come il terrore per possibili vandalismi sui monumenti. Come dimostrano le nuove stazioni d’arte delle metropolitane, il napoletano ama e rispetta le cose belle. Peggiora solo la bruttezza, perché non si sente rispettato.

Tre giorni dopo, domenica, spettacolo delle 20

Arriviamo al 7 maggio sera, una domenica con due rigori a favore del Napoli – ecco l’unico miracolo di stagione – c’è stata la festa ufficiale. Una festa kolossal, Aurelio ha dato al suo pubblico musica (da Clementino a Geolier) e la parata di tutti, dirigenti e calciatori, con tanto di maglietta ufficiale personalizzata (un genio: ne aveva fatte fare decine di migliaia mesi fa, ma la Lega non gli ha permesso di far giocare il Napoli con quelle divise, pur avendo accettato quelle inguardabili di San Valentino: e lui le ricicla come divise celebrative). 

A presentarli lo speaker ufficiale, Decibel Bellini, la voce del suo Napoli, l’uomo che ne ha sottolineato i gol più importanti e che ha declamato le sue formazioni più forti. La voce fuori campo di questa serie lunga quasi 20 anni.

Ma lui no, lui si è fatto presentare da un premio Oscar, Paolo Sorrentino, che si è visto la partita a bordo campo – “Diego ci ha mostrato come si fa, noi lo abbiamo fatto” la frase più bella della serata l’ha detta lui -, uno che un film con ADL (così lo chiamano i tifosi del Napoli che non gli danno del pappone e che ora fingono di amarlo) non lo farà mai, ma che lo ha introdotto felicemente nel giorno della gioia. Sorrentino che torna prepotente alla fine della serata, quando Tommaso Starace, il magazziniere con la moka sempre a portata di mano, balla la Carrà stile Grande Bellezza. Con tanto di coreografia di tutta la rosa.

Paolo Sorrentino, che nel giorno della gioia e non della festa – bella, bellissima, ma quella di giovedì, più ruspante e spontanea, ce la teniamo stretta – è stato citato da un tifoso vestito da Cardinal Voiello, ma anche quando su Piazza del Plebiscito si sono visti due droni.
E ci siamo guardati e abbiamo immaginato tutti che fossero gli occhi del grande cineasta sulla sana follia di questo terzo scudetto. Finché un uomo abbastanza avanti con l’età ha urlato, rompendo la poesia di quel pensiero condiviso o semplicemente portandola al suo apice: “Jatevenne! Putìn è juventino!”.

La nota politica più centrata degli ultimi mesi, che gli vale l’ovazione degli astanti.

Napoli e il suo terzo scudetto sono un film perfetto. Che continuerà ancora per settimane.

Lo so, è ridicolo che una città, migliaia di persone si fermino perché dopo tanti anni incoronano un ultrasettantenne. Lo so, è grottesco che gente umile e spesso in difficoltà economiche, si commuova per un gruppo ristretto di persone che guadagnano denaro senza saper fare nulla o quasi, spesso non hanno studiato e sanno poco del mondo che hanno intorno.

Lo so, è assurdo che una comunità si fermi per giorni, che vi siano concerti e gente in strada, per qualcosa di futile che nulla porta al miglioramento del nostro mondo, ma che anzi rappresenta un rituale arcaico, pacchiano, in cui i simboli sono più importanti di tutto.

Lo so, che state pensando.

Aurelio De Laurentiis, re, devono farlo subito.

P.S.: E comunque se devo scegliere un oppio dei popoli, preferisco il pullman azzurro scoperto con il viso di Diego sulla fiancata che quella carrozza dorata a Londra, consentitemi.