Negli scatti di Don McCullin c’è la grande tragedia umana (resa eterna). Da Finsbury Park al Vietnam alla Siria

La retrospettiva al Palazzo delle Esposizioni di Roma del grande fotografo inglese, tra dolore, denuncia e ineluttabilità: un viaggio senza tempo, che si tratti del prima e il dopo della città siriana di Palmyra o dello sguardo disperato di un marine americano

Non potrebbe esserci un momento migliore per capire fino in fondo il lavoro di Don McCullin. Il fascino e l’orrore della guerra, catturati in fotografie rimaste nell’immaginario comune del secolo scorso e sempre attuali, come un incubo ricorrente che non smette di tormentare e riprende appena si chiudono gli occhi. Sono icone di una grande tragedia, immobilizzata e resa eterna, senza distinzione e senza tempo, che raccontino gli scontri a Cipro o la paura negli occhi del marine in un momento di pausa dei combattimenti in Vietnam.

C’è empatia per gli uomini, ma nessuna illusione nelle immagini di Don McCullin, quasi che la sua visione non possa prescindere dall’eredità di una adolescenza violenta nel “difficile” quartiere londinese di Finsbury Park. Se è vero che con tutta probabilità, come lui racconta, la fotografia lo ha salvato da una carriera di criminale, è senza dubbio vero che i fantasmi di quella educazione di strada non lo hanno mai abbandonato, perseguitandolo sui fronti di tutto il mondo, dal Congo belga al Libano, dall’Irlanda del Nord al Salvador, con uno sguardo mai rasserenante.

Marine traumatizzato dai bombardamenti. Battaglia di Huế, Vietnam 1968

Marine traumatizzato dai bombardamenti. Battaglia di Huế, Vietnam 1968

Non c’è quiete nemmeno nei momenti di tregua. Persino i paesaggi del Somerset o i resti monumentali dell’impero romano, soggetti su cui l’obiettivo di Don McCullin si è rivolto negli ultimi anni, diventano ambientazioni drammatiche. La minaccia di nuvole sempre cupe non annuncia la gioia liberatoria della pioggia ma sembra ricordare la fragilità degli esseri umani condannati a vivere senza pace. Non c’è soluzione di continuità fra gli scatti della gioventù, i paesaggi industriali dell’Inghilterra coperta di carbone a metà del Novecento, e i panorami mai bucolici ritratti dalla finestra della casa in campagna.

Dice Don McCullin che anche questi ultimi “hanno un valore politico, perché servono a difendere dagli speculatori gli ultimi tratti di territorio vergine”. In verità però l’orizzonte del fotografo inglese non offre contemplazione ristoratrice nemmeno nella natura, perché il mondo è un luogo di intimo sconforto e il destino dell’umanità è quello di affrontare la sofferenza.

Eppure donne e uomini nelle inquadrature di McCullin non scontano una condanna al rancore, guardano rassegnati e spesso disperati, ma consci che il destino lavora al di là delle loro scelte, macinando vite e triturando speranze. Spesso quel destino prende le sembianze di macchina dell’odio: è la stessa ferocia che ha ispirato i fondamentalisti dello Stato islamico nella furia rivolta contro i monumenti, a negare la Storia e dunque la stessa identità umana. Il monito sottolinea la necessità di annullamento degli esseri umani nella fede, ma il messaggio originale viene accolto, tradotto e ribadito da McCullin, paradossalmente in modo più sconsolato, perché nel passaggio si perde l’illusione del divino.

The avenue, Apamea, Syria | Il viale, Apamea, Siria, c.2006-2009

The avenue, Apamea, Syria | Il viale, Apamea, Siria, c.2006-2009

Nella grande retrospettiva ospitata al Palazzo delle Esposizioni di Roma, con oltre 250 immagini divise in sei diverse sezioni, c’è un senso di ineluttabilità che trascende l’oggetto dell’inquadratura. Le immagini della città siriana di Palmyra messe a confronto, il prima sontuoso delle rovine romane e il dopo disperante, per l’arrivo rovinoso dell’Isis, non testimoniano solo la devastazione compiuta dal fanatismo sulle pietre come sulle anime, ma sottolineano l’inutilità degli sforzi, ché nessuna opera dell’uomo è destinata a sopravvivere e ogni fantasia tornerà polvere, senza scampo.

Tanto è forte la denuncia, così è profondo il dolore dell’artista, nell’ammettere che il suo lavoro, alla fine, non può cambiare la realtà. Puntare il dito contro la bestialità, riconoscerne i tratti, strapparne la maschera: è il sogno di chiunque abbia raccontato la guerra, con le parole o con le immagini. Ma dopo oltre mezzo secolo di lavoro Don McCullin deve concludere che anche questo è un miraggio. “Tutti partiamo con grande entusiasmo. Ma oggi lo so: quello che ho fatto, quello che facciamo, non serve a nulla”.

DON McCULLIN
Fino al 28 gennaio 2024
Palazzo delle Esposizioni, Roma