La grandezza di Letizia Battaglia, i contrasti del flash e la reflex che serve a suggerire, non a proclamare

Lo sguardo sobrio eppure empatico, le immagini di mafia, i contrasti sparati e quel bianco e nero diventato un marchio di fabbrica, la Sicilia e il mondo, la capacità di sfuggire ai cliché scongiurando il rischio di trasformare l'orrore in routine quotidiana: è l'imperdibile mostra alle Terme di Caracalla

Si corre un rischio molto grave, andando a vedere la mostra “Letizia Battaglia senza fine” alle Terme di Caracalla. Lo scenario – per una volta l’espressione non è abusata – lascia senza fiato. Uno sfondo dove la storia romana riprende vita, un contesto che non si può replicare, un senso di grandiosità che non può non restare impresso. Poi c’è la personalità della grande fotografa, anch’essa non comparabile. Femminista ante litteram, protagonista a voce alta del dibattito culturale (mai in maniera convenzionale) e allo stesso tempo ispirazione per giovani seguaci, fino alla sua scomparsa, nell’aprile dell’anno scorso. Sono due elementi che costruiscono una combinazione particolare, e l’effetto è di incanto. Si esce dalle Terme con la testa leggera, con la stessa volontà di chi non vorrebbe svegliarsi e si aggrappa al sogno, non vuole abbandonarlo.

L’arresto del feroce boss mafioso Leoluca Bagarella. Palermo, 1979

L’arresto del feroce boss mafioso Leoluca Bagarella.
Palermo, 1979

Ma il rischio c’è, ed è serio: è quello di non vedere le immagini, di farsi distrarre dall’occasione, e concentrarsi quasi sul personaggio, invece che guardare al lavoro. Se si legge bene il corpus completo delle foto, che la loro sostanza sia testimonianza o più raramente ci sia una sfumatura di provocazione, se ne trae una convinzione netta. Cioè che lei, Letizia Battaglia, avrebbe sorriso di fronte al glamour e lasciato parlare il grandangolo della sua Pentax, perché il cuore del suo racconto era sempre l’umanità, italiana e soprattutto siciliana, ma non solo.

Il giudice Giovanni Falcone ai funerali del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Palermo, 1982

Il giudice Giovanni Falcone ai funerali del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Palermo, 1982 – Letizia Battaglia

Quelle fotografie di anni mai del tutto scomparsi, con il bianco e nero a grana grossa della pellicola ad alta sensibilità, o i contrasti sparati del flash, sono entrate nella memoria comune. Ma non per un approccio da protagonista da parte dell’autrice: la Battaglia non ne aveva bisogno. La sua reflex serviva a suggerire, non a proclamare. A lei l’energia serviva per farsi largo in mezzo agli uomini scettici e portare a casa la “sua” inquadratura, non per sottolineare con enfasi. D’altronde, che bisogno c’era di enfasi nella Palermo di quegli anni, in piena guerra fra cosche mafiose? C’era necessità di particolari accorgimenti di ripresa per fotografare Leoluca Bagarella in manette? Difficile pensare che la smorfia del boss appena catturato avrebbe potuto dire di più, se fosse stata concordata e messa in scena sotto le luci di uno studio ben allestito.

Spiega Letizia Battaglia nel libro-intervista con Sabrina Pisu: “Per fotografarlo mi avvicinai, perché uso sempre il grandangolo, e lui era furioso, aveva le mani bloccate dalle manette ed era trascinato dai carabinieri. Quando gli comparvi davanti all’improvviso con la mia camera, inferocito provò a sferrarmi un calcio e io caddi all’indietro ma la fotografia l’avevo già fatta. Con il teleobiettivo le fotografie si possono rubare, e a me questa cosa non piace, voglio essere vista, riconosciuta, voglio essere alla pari con la persona che fotografo, voglio prendermi calci e sputi, ma voglio che quella persona sia consapevole che la sto fotografando”.

Totò e Maradona. Napoli, 2016

Totò e Maradona. Napoli, 2016

Nelle foto degli omicidi di mafia c’è quasi una freddezza auto-imposta, che però non è mai mancanza di empatia. E’ una sobrietà che risalta ancora di più di fronte alle esasperazioni diffuse, ma insieme tradisce un senso di rispetto per le vittime e di sgomento mai sguaiato verso i carnefici. Quelle foto sembravano dire: guardate, questa è la realtà della mia Sicilia, senza sconti, ma anche senza scorciatoie. Nella splendida selezione in mostra a Roma e ancora di più nel bel libro uscito per i tipi di Electa – un catalogo allargato, con altre immagini e con contenuti critici originali – non compare una foto che si possa definire “facile”. Il corpo dell’ucciso è quello: non ci sono immagini allusive, non c’è lo scorcio ben tagliato di una mano abbandonata, né il primo piano di un rivolo di sangue.

C’è la ferocia guardata negli occhi, in modo così diretto che la stessa Letizia a un certo punto sentì la necessità di distogliere il suo obiettivo. Come testimone aveva fatto la sua parte fino in fondo: l’ultima immagine di mafia è il ritratto di Rosaria Schifani, vedova di Vito, ucciso assieme a Giovanni Falcone. Dove non poteva la carneficina, arrivò la percezione che per quel dolore non c’erano limiti. La Battaglia, da grande professionista, capì che correva il rischio di chiudersi nella gabbia di un cliché. E ancora di più correva il pericolo di mitridatizzarsi, di trasformare l’orrore in routine quotidiana.

Atatürk. Turchia, 1984

Atatürk. Turchia, 1984

Ma la profondità del suo sguardo non poteva rivolgersi altrove, poteva solo correggere l’inquadratura di pochi gradi, per osservare l’umanità siciliana o quella di qualche scorcio di mondo, sempre con lo stesso spirito, di accettazione dell’umanità e dei suoi limiti, dalla gioia ingenua dei nudi ripresi per Le Ore, agli sguardi dei bambini, unici a sorridere. Insomma, è nelle sue foto la risposta alla domanda fatta dagli invidiosi che – racconta nel libro-intervista – chiedevano il perché di un buon incarico: “Picchì issa?” Perché lei? Perché il suo sguardo era prezioso, e senza confronti.

Letizia Battaglia Senza fine
Alle Terme di Caracalla – v.le delle Terme di Caracalla 52 – ROMA
fino al 5 novembre 2023