Steve Martin faceva il mago, era un tipo molto solitario e ha studiato filosofia applicandola alla comicità. Ha cominciato la sua carriera giovane, giovanissimo. Al padre non poteva chiedere soldi, il che gli ha insegnato il valore del lavoro, ma lo ha anche predisposto alla ricerca spasmodica dell’accettazione da parte del genitore, da cui non si è mai sentito troppo preso sul serio, almeno fino all’ultimo periodo della sua vita – di cui ha scritto meglio in un lungo articolo per il New Yorker.
Ha avuto diverse fidanzate, quando era ancora molto giovane, si è poi sposato a quarantuno anni con Victoria Tennant, anche se sapevano che non sarebbe durata, e lo ha rifatto con Anne Stringfield nel 2007, avendo la sua prima figlia a cinquantasette.
Suona il banjo, è davvero amico di Martin Short, il cui rapporto in Only Murders in the Building ricalca lo stesso che hanno nella vita vera, ed è stato il primo comico a fare stand-up comedy riempiendo teatri e sale con migliaia di centinaia di spettatori – portandoli a volte anche fuori, per le strade, un po’ come Forrest Gump con i suoi “seguaci”. È stato il fondatore di un movimento, di cui era unico maestro e discepolo, con una tecnica comica mai ripetuta da nessuno, vista francamente l’impossibilità.
La sua teoria si basava sulla decostruzione della risata, eliminare la punch line finale per generare una battuta infinita che, di fatto, non arrivava mai. Continuare, continuare in maniera perpetua (da qui l’esperienza accademica della filosofia), sperando che prima o poi qualcuno avrebbe pur fatto qualcosa. E, se non fosse stato ridere, avrebbe almeno avuto una reazione, sempre meglio del rimanere indifferenti.
Steve Martin: due universi, una sola persona
Martin ha imparato il mestiere osservando gli spettacoli di Disneyland, in cui ha lavorato ai tempi dell’adolescenza. Si era dato come obiettivo di successo i trent’anni e ha sofferto per una vita di attacchi di panico. E di anni, adesso, ne ha settantotto, e tutto questo – e ancor di più – lo racconta in STEVE! (martin) un documentario in due parti mostrando un timore estremo, una timidezza inattesa. Una sincerità che non ti aspetti da chi è così in alto nella scala sociale dello show business, ma che al contempo sa anche essere arrivato il momento di scendere a patti con la verità.
Due parti perché per il regista Morgan Neville un’esistenza simile era incontenibile in una sola. “Nel documentario Jerry Seinfeld dice che molti comici affrontano un atto solo della loro vita. Per Steve non è stato così”, commenta. “Ha affrontato un lungo viaggio, da uomo solitario fino a persona circondata da persone, da una comunità, soprattutto da amore. Per questo sono finito a realizzare due film separati – con montaggi differenti, tagli differenti, suoni differenti – ma che si completano, tutto per conciliare i diversi Steve insieme”.
Una prima entrata nel mondo psichedelico della comicità – e dell’angoscia che può generare – in cui la figura umana è del tutto riservata alle fotografie, ai video, ai ritagli di giornale e al lavoro di pastiche. Unita ad una seconda in cui il comico si mette frontale alla telecamera – o laterale, girato, di tre quarti – per farci vedere com’è adesso. Che ci porta addirittura nel suo antro dei ricordi fatto di copioni rilegati, di quadri acquistati (viene approfondita la sua passione per l’arte e il collezionismo derivante) e di VHS che lo riportano indietro nel tempo, come fa il documentario.
Un primo pezzo di racconto “fatto con materiale d’archivio, trovato semplicemente scavando, scavando e scavando. Ci è voluto un anno per trovare alcune riprese chiave. Ma grazie a questa ricerca siamo arrivati a filmati come quello in cui Steve intervista il padre e poi il padre intervista Steve. Sono incredibili le tonnellate di scatole che abbiamo trovato nel suo seminterrato e tutto quel che ne è venuto fuori, con due mesi e mezzo necessari soltanto alla scansione di ogni foto, video e oggetto”.
Una responsabilità non indifferente, l’entrata in un regno per tanti decenni rimasto privato, quasi segreto, che ha dovuto conquistare da prima la confidenza dell’artista stesso, arrivando a raccontarsi e a farsi raccontare da altri. “Ci sono due tipi di responsabilità”, precisa Neville. “Una è verso le persone che conoscono il personaggio pubblico, che hanno delle opinioni a riguardo, a volte anche dei sentimenti”.
E prosegue: “Dall’altra c’è il soggetto vivente, c’è Steve, c’è la responsabilità di raccontarlo per bene. L’obiettivo è sintetizzare ciò che vedo e ciò che viene proposto. È una questione di fiducia”. Fiducia da parte di uno Steve Martin che “aveva detto che probabilmente non avrebbe guardato il documentario. Poi se lo è fatto inviare. Il giorno dopo mi è arrivata una sua email con scritto: posso farlo vedere al mio strizzacervelli?”.
Quanto è vulnerabile la comicità
STEVE! (martin) un documentario in due parti è così un’opera di un fan (“Feci guidare mio padre per sette ore pur di vedere un suo spettacolo”) per i fan, ma anche per chi non potrebbe mai immaginare quanto potrebbe sentirsi solo chi nutre il desiderio di far ridere le persone. Un reminder, più che una vera scoperta, di cui Steve Martin ne è un esempio felice.
Che si possa dire di conoscere meglio il comico dopo il documentario? “Non voglio essere presuntuoso, ma penso di sì”, parla per sé Morgan Neville.
“Non ho mai sentito la necessità che mi raccontasse tutto quello che aveva nel profondo. Avevo bisogno di intravederlo. Di intravederlo, così da capirlo. Abbiamo instaurato un rapporto stranamente terapeutico, con ore e ore di interviste con lui che cominciava a parlare ancor prima del via dell’azione o che si intratteneva a conversare con qualcun altro. E forse la miglior recensione possibile che posso ricevere è che lui stesso riesca a scoprire qualcosa di sé che non sapeva. Anche perché è come ha affermato Adam Gopnik: Steve è cambiato più di qualsiasi altra persona abbia mai conosciuto. E probabilmente continuerà a farlo”.
Dal trip schizofrenico di una comicità celebrale alla placidità e accettazione di chi si è e chi si può accogliere accanto. Tra trattato e ritratto, STEVE! (martin) un documentario in due parti è un prisma completo e affascinante, divertente come il suo protagonista, vulnerabile come anche la comicità (e le persone) sanno essere.
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