L’anno dell’uovo, la recensione: un culto inventato che viene spezzato dall’arrivo del dolore

La pellicola di Claudio Casale è uno dei tre progetti a micro-budget di Biennale College Cinema sviluppato all'interno dei workshop sull'isola di San Servolo. Un racconto che, in fondo, è solo una storia d'amore

L’anno dell’uovo è una storia d’amore. Per Claudio Casale, regista del film sceneggiato da Claudia De Angelis e Milo Tissone, non è riduttivo definirlo così. Il lungometraggio a micro-budget, finanziato da Biennale College Cinema e sviluppato nel corso dei workshop sull’isola di San Servolo, è un “supermercato di culti new age” – parole sempre del suo autore – che ha però come fulcro l’unione sincera e inossidabile tra i suoi due protagonisti, Gemma (Yile Yara Vianello) e Adriano (Andrea Palma).

Una coppia in attesa del primo figlio, che per affrontare i mesi che li separano dalla nascita del bambino si unisce al “culto dell’uovo”, una comunità ristretta di persone che hanno scelto di allontanarsi dalla frenesia della vita “normale”. Un modo per conoscersi nel profondo, attraverso il contatto con la natura e la riscoperta di valori troppo spesso dimenticati.

Ma L’anno dell’uovo è una storia d’amore soprattutto perché Gemma e Adriano, pur entrando a far parte di quella che, a tutti gli effetti, è una comune – alcuni potrebbero definirla una setta, ma non è così che la vede Casale – si ritroveranno presto soli. Pur costretti a trascorrere le ore dei pasti insieme agli altri fedeli, obbligati a eseguire gli esercizi di meditazione con i futuri padri e le future madri, i ragazzi scopriranno di essere loro contro il mondo. Anche quello creato dal culto dell’uovo.

L’anno dell’uovo, un culto insolito

Ambientato in una piccola e mistica società lontana dalla metropoli, con le proprie norme e i propri codici, L’anno dell’uovo è insolito proprio come il credo che professa.

Il film non è la presa in giro di religioni similari che sfociano nel fanatismo e, spesso, nello psicodramma, come narrato da tanto cinema e tanta televisione (tra gli ultimi è la serialità ad essere partita alla carica, tra i Nove perfetti sconosciuti con Nicole Kidman o lo star system di The Idol, cancellata dopo la prima stagione). È bensì un’opera che, con dignità, riporta le pratiche di un culto – del tutto inventato – che onora l’introspezione e la fertilità. E da cui, sorprendente ma vero, i suoi adepti non finiscono per uscire (quasi) fuori di testa, né diventano dei serial killer.

Devozione, rinuncia, impegno

Ciò che però rompe il guscio della comunità, quell’unica famiglia racchiusa sotto l’Uovo dorato tenuto al sicuro nel suo tempietto, è un dolore che i personaggi non credevano potesse toccarli, e che li manderà invece in frantumi nonostante gli insegnamenti (o i rimproveri) della guida Guru Rajani, interpretata da Regina Orioli.

Certo, la pellicola insegue più idee e atmosfere (verso la fine, addirittura solo linee e sagome) che accadimenti o narrazione. Ha più interesse nell’interrogarsi su ciò che è astratto che nel concretizzare una storia che non riguardi solo momenti di preghiera e di condivisione.

Al contempo il film permette di riflettere su parole come “devozione” e “rinuncia”, che sempre meno spesso compaiono nel vocabolario e nei comportamenti delle persone. Mostrando che qualsiasi tipo di impegno, dal votarsi ad un culto al sostenere chi si ama può sostenere ogni male. E che può dare addirittura nuova forma alla vita. Anche quella ovale e inattesa di un uovo.