Agnieszka Holland: “In Polonia l’area di esclusione speciale per i migranti è una zona di paura. Di morte”

Parla la regista di Green Border, dramma sul tema dei rifugiati applaudito a Venezia ma furiosamente attaccato dal governo di Varsavia (e nonostante ciò un trionfo in sala): "Mi sembra pericoloso, per il futuro dell'Europa, scegliere la violenza come risposta ai problemi politici. Se dimentichiamo i diritti degli esseri umani solo perché sono 'irregolari', neri o arabi, allora tutto diventa possibile. Il prossimo passo saranno le uccisioni di massa". L'intervista di THR

È un periodo strano per Agnieszka Holland. Green Border, il nuovo film della famosa regista polacca – tre volte candidata all’Oscar – ha appena segnato la migliore apertura dell’anno in sala per un film polacco, con 137.000 spettatori nel primo weekend, secondo quanto comunicato dal distributore locale Kino Świat. Un risultato particolarmente impressionante se si considera che il film, un dramma in bianco e nero sulla situazione dei rifugiati al confine tra Polonia e Bielorussia, non è esattamente “leggero”.

Alla fine del 2021 migliaia di rifugiati provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa sono stati attirati sul confine polacco dal dittatore bielorusso Alexander Lukashenko, cinico protagonista di una crisi geopolitica innescata prospettando ai migranti l’illusione di un facile passaggio verso l’Unione Europea, attraverso il confine polacco. 

Ma il governo polacco si è rifiutato di farli entrare, bloccando le famiglie, inermi e affamate, nelle foreste paludose e pericolose che dividono i due paesi. Il film di Holland alterna il punto di vista dei rifugiati a quello delle guardie di frontiera e degli attivisti che sfidano il governo polacco, che ha isolato la zona di confine, aiutando i migranti. Jalal Altawil, Maja Ostaszewska, Behi Djanati Atai, Mohamad Al Rashi, Dalia Naous, Tomasz Włosok sono i protagonisti. Films Boutique sta vendendo il film in tutto il mondo. Green Border è ancora senza distribuzione negli Stati Uniti.

Il successo al botteghino nazionale è conseguenza della vittoria del film di Holland alla Mostra di Venezia, dove ha ricevuto il premio speciale della giuria ed è stato unanimamente elogiato dalla critica – The Hollywood Reporter ha definito nella sua recensione Green Border un “trionfo di dolore, drammatico e devastante”.

Ma Green Border ha trasformato la regista in un facile bersaglio del governo di destra polacco che, nel mezzo di una tesa campagna elettorale per la rielezione (le elezioni parlamentari polacche si terranno il 15 ottobre), ha fatto leva sul tema del “pericolo rifugiati”, strumentalizzando il film di Holland. Prima ancora che la pellicola fosse proiettata a Venezia, i membri del governo già la attaccavano in rete.

Il ministro della giustizia polacco Zbigniew Ziobro ha paragonato il film alla “propaganda nazista” per la presunta rappresentazione negativa della polizia e delle guardie di frontiera polacche. (L’Olanda ha poi intentato una causa per diffamazione contro Ziobro). In un’apparizione televisiva, anche il presidente polacco Andrzej Duda ha usato lo stesso paragone con il nazismo, invitando il pubblico a boicottare il film con uno slogan – “Solo i porci siedono al cinema”, usato nella Seconda Guerra Mondiale dalla resistenza durante l’occupazione tedesca, quando nelle sale cinematografiche polacche venivano proiettati solo film di propaganda nazista. Prima dell’uscita di Green Border, il ministro degli interni del paese ha preso la decisione – senza precedenti – di imporre alle sale che proiettano il film la visione di un video governativo che contraddice la rappresentazione degli eventi narrata dalla regista.

Considerato il curriculum di Holland – nominata all’Oscar per Angry Harvest (1985), Europa Europa (1992) e Darkness (2011) – Green Border era considerato il favorito per la campagna polacca agli Oscar di quest’anno. Tuttavia, sulla scia delle proteste, la commissione incaricata di decidere le candidature del paese al miglior film internazionale ha proposto l’adattamento letterario animato The Peasants di DK e Hugh Welchman. Un film basato sul romanzo del premio Nobel polacco Wladyslaw Reymont e ambientato in un villaggio rurale del XIX secolo, lontano anni luce dall’attuale campagna elettorale polacca.

“Non è stata una sorpresa”, ha detto Holland a proposito della mancata candidatura agli Oscar. “Non era possibile che il governo condannasse me e il mio film in questo modo, e poi permettesse di candidarci ufficialmente per la Polonia”.

Nonostante gli attacchi – minacce di morte incluse – la regista 74enne rimane fermamente determinata a “dire la verità” sulla crisi dei migranti, ignorata dalla maggior parte dei media tradizionali. Per ricordare a spettatori, politici ed elettori le migliaia di persone che ancora soffrono e muoiono ai confini della fortezza Europa.

L’Hollywood Reporter ha parlato con Holland in diverse occasioni, sia prima che dopo la premiére del film. L’intervista che segue è un mix di queste discussioni, tagliate per favorire la scorrevolezza e la chiarezza del testo.

Perché ha scelto la situazione dei rifugiati al confine tra Polonia e Bielorussia come soggetto del suo nuovo film?

Ero già molto attenta alla condizione dei rifugiati sin dall’inizio della crisi, almeno quella iniziata in Europa nel 2014, e sensibile alle sue cause, tra cui la guerra in Siria e l’instabilità nel Medio Oriente, una regione destabilizzata per anni da noi occidentali. E ora ne paghiamo le conseguenze.

Per quanto riguarda il mio paese,  questa specifica situazione è stata causata da Vladimir Putin e dalla Bielorussia. Sono loro che hanno proposto ai rifugiati quello che gli sembrava il modo più sicuro e meno costoso per entrare nel “paradiso” dell’Unione Europea. I migranti hanno immediatamente colto la possibilità di arrivare a Minsk e da là raggiungere il confine per attraversarlo. La notizia si è diffusa rapidamente su internet. Molto rapidamente. A quel punto, il governo e il popolo polacco non si sentivano responsabili diretti di ciò che stava accadendo – o almeno lo erano nella misura in cui l’Europa tutta è responsabile di aver contribuito alla destabilizzazione delle regioni da cui quella gente proviene. Dal primo momento in cui le persone sono arrivate qui, e hanno cominciato ad attraversare il confine attraverso la foresta – che è come una foresta amazzonica, quasi biblica, con paludi e fiumi pericolosissimi – si è posto il problema di cosa farne. È diventata una questione di diritto, di diritto internazionale, di diritto della Costituzione polacca e di diritto europeo.

Dicono tutti la stessa cosa: se una persona viene a chiedere aiuto e protezione, bisogna lasciarla entrare per poi darle la possibilità di dimostrare che era davvero in pericolo. Questa è la procedura normale per i richiedenti asilo. Certo, è costoso. Ma è quello che si deve fare. E non è successo.

Il governo ha invece cavalcato politicamente la questione usando i migranti per creare un senso di insicurezza, pericolo e paura tra la popolazione – cosa piuttosto facile da ottenere – fomentando istinti nazionalistici e razzisti. I rifugiati sono stati additati come terroristi e pedofili – sono parole ufficiali dei ministri polacchi in televisione – e l’ostilità è cresciuta esponenzialmente.

Non credo che il governo polacco sia responsabile della crisi, ma non ha fatto nulla per alleviarla. Ha istituito una zona di “esclusione speciale”, ha dichiarato lo stato di emergenza nella regione, ha impedito ai media, alle organizzazioni umanitarie e mediche, di entrare per portare aiuto. Non ha nemmeno permesso ai politici dell’opposizione di entrarci, per vedere cosa stesse succedendo. È diventata una zona proibita. Una zona di paura. E, purtroppo, anche una zona di morte.

Mi sembra molto pericoloso, per il futuro dell’Europa, accettare questa violenza e scegliere la violenza come risposta ai problemi politici. Se dimentichiamo i diritti degli esseri umani solo perché sono “irregolari”, perché sono neri o arabi, se accettiamo questo, allora tutto diventa possibile. Il prossimo passo saranno le uccisioni di massa. Ho fatto tre film sull’Olocausto. Ho fatto il film [Mr. Jones] sulla carestia di Stalin, in Ucraina. So quanto sia facile superare il punto di non ritorno: il punto in cui la violenza si amplifica e diventa sempre più grande.

Quindi, per ragioni umane, morali, politiche e artistiche, avevo bisogno di fare questo film.

Il film è stato realizzato molto rapidamente e senza alcun sostegno governativo, cosa estremamente rara in Polonia.

Sì, la maggior parte dei film polacchi riceve finanziamenti dal governo, ma noi non abbiamo richiesto soldi allo stato perché volevamo restare indipendenti. E sapevamo comunque che il nostro film sarebbe stato rifiutato, per via del tema. Abbiamo girato praticamente in segreto. Sono riuscita a convincere amici e collaboratori a seguirmi. Abbiamo fatto tutto in modo autonomo.

La reazione del governo polacco nei confronti dei rifugiati, nel 2021, è in netto contrasto con l’accoglienza riservata ai rifugiati ucraini dopo l’invasione russa del febbraio 2022.

La differenza fondamentale tra i rifugiati “storici” e quelli che oggi attraversano i confini dell’Ucraina è semplice: il colore della loro pelle. All’inizio della guerra in Ucraina la Polonia ha accolto, nelle prime settimane del conflitto, tra i due e i tre milioni di rifugiati provenienti da quella terra. L’intera società si è mostrata estremamente solidale e generosa e si è prodigata in aiuti, dando loro il benvenuto. Dall’inizio della guerra io stessa ho ospitato tre famiglie di rifugiati ucraini. Ma ora, dopo un anno e mezzo, quell’entusiasmo è venuto meno. E stanno nascendo i problemi. [La settimana scorsa la Polonia ha dichiarato che non fornirà più armi all’Ucraina per combattere la Russia, dopo un duro confronto tra i due paesi sulle esportazioni agricole].

Credo che la ragione principale del cambiamento sia l’effetto paura che si è creato intorno ai rifugiati in Europa. I politici fascisti stanno vincendo le elezioni e stanno cambiando l’Europa, distruggendo l’Unione Europea. Ma anche l’atteggiamento dei partiti democratici e liberali, che voltano le spalle al problema, rischia di cambiare faccia all’Europa. Al momento stiamo perdendo tutti. 

Perché ha girato Green Border come un film di finzione, e non come un documentario?

Intanto perché io faccio film di finzione, non documentari. Uso gli attori che ho a disposizione e i miei mezzi espressivi. Ma in questa particolare situazione era praticamente impossibile realizzare un documentario, perché semplicemente non si ha accesso a molti dei luoghi, degli eventi e delle persone che sono al centro degli eventi. Non potevo sperare di trovare una guardia di frontiera disposta a diventare l’eroe della mia storia in un documentario, sapendo che ciò le avrebbe inimicato il regime. Non avrei potuto mostrare ciò che fanno nella zona di esclusione, perché nessuno ha avuto accesso là dentro da quando l’ostilità si è fatta così netta. Ed è difficile entrare in contatto con la maggior parte dei rifugiati che sono arrivati, perché vivono in un limbo legale. Hanno paura di parlare di ciò che sta accadendo.

Giro così perché vivo in un paese che usa la polizia e le forze militari per impedire la libertà di espressione e di lavoro a giornalisti e documentaristi. La finzione è l’unico modo per mostrare ciò che sta accadendo.

Credo anche che la fiction, quando non tenta di manipolare i fatti, ma è onesta e chiara, possa toccare i cuori e le teste delle persone in modo leggermente diverso dai documentari. Può far leva sull’empatia: la buona fiction favorisce l’identificazione con gli altri. Ricordate la foto del corpo del bambino sulla spiaggia [Alan Kurdi] che ha smosso le coscienze di milioni di persone? Le immagini sono importanti.

Cosa spera di ottenere, dal punto di vista politico, con questo film?

Non ho certo gli strumenti per risolvere il problema globale dei rifugiati. E non credo che sia possibile risolverlo, perché penso che siamo arrivati al punto in cui, a diverse latitudini, ci sono popolazioni intere che non possono più vivere con dignità e in sicurezza, e quindi per sopravvivere dovranno lasciare le loro case. Dobbiamo affrontare questo problema. Dobbiamo discuterne e cercare soluzioni reali, non fare come gli struzzi che mettono la testa sotto la sabbia, ignorando la questione o pagando qualche dittatore per tenerli fuori dall’Europa. O bloccando i barconi in modo che non sbarchino sulle coste europee. Niente di tutto ciò risolverà il problema.

Parlando di Green Border, ha detto che è legato tematicamente a Europa, Europa, il suo film del 1992 su un ragazzo ebreo che vive nella Germania nazista e che cerca di nascondere la sua identità, entrando persino nella Gioventù hitleriana. Cosa lega i due film?

Entrambi riflettono la doppiezza dell’Europa. Green Border ha un doppio significato: è un luogo di bellezza e una zona di morte. È simile a Europa, Europa, che è forse il mio film più noto e che parla dell’Olocausto. Da un lato l’Europa è la culla della civiltà, della cultura, della democrazia, dei diritti umani e dell’egualitarismo. Dall’altro è il luogo dei più spietati e vasti crimini contro l’umanità nella storia del mondo. La bilancia può sempre inclinarsi da una parte o dall’altra. Al momento lo squilibrio è tale da mettere in pericolo il futuro dell’Europa.

Dopo tutto quello che ha visto e vissuto, spera ancora nella prima Europa, la culla della civiltà e dei diritti umani?

Non ho mai creduto ingenuamente nell’Europa. Appartengo alla generazione cresciuta dietro alla cortina di ferro. Ho vissuto sotto il regime comunista, al quale mi sono opposta e per cui ho pagato il prezzo, compresa la prigione. Naturalmente sono stata felice nel 1989, quando è caduto il muro di Berlino. È stato inaspettato, come un miracolo. Come se si fosse realizzato il sogno di una generazione. Ma allo stesso tempo sapevo che quel momento non sarebbe stato per sempre, e che dovevamo stare molto attenti. La democrazia è una cosa complicata, e la gente ha un problema con la libertà. Perché libertà significa assumersi delle responsabilità. E in tanti non vogliono prendersele.