Caracas, la recensione del film di e con Marco D’Amore: Napoli ferrovia è il confine del mondo postideologico

Scordatevi la Napollywood degli ultimi anni, seducente e bellissima, quella di Marco D'Amore (ed Ermanno Rea) è una città vera, un po' barrio e un po' favela, in cui tutte le facce sono familiari e allo stesso tempo diverse. L'immortale è tornato e dietro la macchina da presa si reinventa ancora. Avevamo un regista, ora abbiamo anche un grande autore

Caracas. La recensione parte dal titolo, perché Ermanno Rea, scrittore sopraffino che avrebbe meritato un Nobel – sempre che esso sia il parametro del talento di un autore, ma a giudicare da chi non l’ha raggiunto, evidentemente non lo è – aveva solo un difetto. La scelta dei titoli, appunto. A cui ci siamo affezionati, per carità, da La dismissione a Napoli ferrovia, ma che son l’unica cosa respingente della sua arte.

Ok, lo ammettiamo, Mistero napoletano, pur non geniale, rimane comunque il migliore, ma a titolare bene il primo siam bravi tutti.

Dove nasce il Marco D’Amore regista

Marco D’Amore continua a imporsi sfide registiche notevoli: dopo l’apprendistato in ben otto episodi della serie Gomorra, un master in regia d’azione e di messa in scena, ha accettato, come esordio nel lungometraggio, L’immortale (2019), che poteva essere una trappola. Midquel della serie, sul personaggio iconico che rischia(va) di strozzarne le ambizioni, lo ha piegato alla sua visione senza tradirlo, raccontandocene le origini, senza pietismi ma con acume e profondità (un esempio? Il terremoto dell’Irpinia a cui il suo (anti)eroe sopravvive a un mese di età sotto le macerie della sua palazzina ne definisce l’immortalità).

Così come il documentario Napoli Magica (2022), in cui cerca miti e aneddoti di una città che ha dentro e forse aveva perduto nel buio della serie che ne ha riscritto l’immaginario. Suo e nostro. Lui non la abbandona, ma la riscrive per sé e per gli altri, rimane nel suo mondo ma catapultandosi fuori dalla sua comfort zone. Ecco perché Caracas – e chiamare così il suo terzo film rende l’idea di quanto potentemente abbia amato e capito Napoli ferrovia – è perfettamente coerente e allo stesso tempo un’evoluzione acrobatica della sua poetica.

Caracas

Commento breve Marco D'Amore ricomincia da tre
Data di uscita: 29/02/2024
Cast: Giordano Fonte, Marco D'Amore, Lina Camelia Lumbroso, Marco Foschi, Angela Pagano, Andrea Nicolini, Brian Salvatore Parisi:
Regista: Marco D'Amore
Sceneggiatori: Marco D'Amore, Francesco Ghiaccio
Durata: 110 minuti

Perché L’immortale è il consolidamento di una visione, Napoli Magica un rovesciamento e Caracas la maturità dell’autore che ne prende un altro, anzi l’Altro, finalmente compreso anche dal cinema (vedi Nostalgia, non a caso figlio della scelta di MAD Entertainment e dello sguardo di Mario Martone, la Napoli atipica e insieme più vera e coraggiosa), lo tradisce quasi totalmente per restituircene lo spirito.

La locandina di Caracas, il terzo film di Marco D'Amore da regista

La locandina di Caracas il terzo film di Marco D’Amore da regista

Caracas, la recensione del film tratto da Napoli ferrovia

Napoli ferrovia è del 2007. Ermanno Rea, vita tumultuosa quanto i suoi ideali e la sua brama di conoscenza, comprensione, contaminazione, occhio da fotoreporter che il mondo lo ha visto, mangiato e restituito per parole e immagini, torna a Napoli, come sempre. Ogni volta pensa di aver sbagliato, ogni volta è la scelta giusta. Come sempre, come accade a ogni suo personaggio.

Perché la sua è l’arte di un napoletano in voluto esilio, intellettuale, antropologico ma mai umano e politico. Napoli è l’Itaca sua e dei suoi personaggi, uno, anzi tanti Ulisse la cui curiosità è inesauribile e che la loro Odissea la trovano tutta lì, tra un mare meraviglioso e vicoli che nascondono mondi. In pochi chilometri quadrati.

Marco D'Amore al monitor sul set di Caracas

Marco d’Amore al monitor sul set di Caracas

Marco D’Amore che è quel tipo di napoletano lì, impossibilitato a staccarsene e dimenticarla, ma capace di viverla ferocemente prendendone contemporaneamente le giuste distanze, per restituirla nella sua verità. Ecco perché nello sguardo come nella scrittura (dove con lui c’è il sodale che l’ha accompagnato fin dall’inizio della sua avventura dietro la macchina da presa, Francesco Ghiaccio) lui è affilato e appassionato, non ha paura di prendere Rea, che costruisce i suoi romanzi come inchieste civili che diventano avventure umane su cose che conosce sin troppo bene, e ci mette dentro se stesso, Rea, ma anche Kassovitz e Kechiche, andando oltre e altrove rispetto alle pagine scritte, con quei lunghi inserti onirici e una struttura circolare, quasi orbitale, che non abbandona quei due, l’intellettuale e il fanatico (ma chi è chi, alla fine?).

Caracas e Giordano, Marco D’Amore e Toni Servillo, che scambiandosi i ruoli rispetto alla loro lunga stagione goldoniana a teatro, rimangono sorprendentemente complementari e vibranti, quasi uno strumento unico con note sempre diverse.

Caracas, il cast artistico e tecnico

I due attori tra risate e lacrime, urla e passeggiate notturne, il ritrovarsi e dirsi addio, percorrono una Napoli che la cartolina cinematografica, la Napollywood degli ultimi anni, ci ha fatto dimenticare. O meglio, mai scoprire. Fatta di strade e incroci e terre di mezzo, da sempre luoghi d’accoglienza magari brutali in cui tutti, però, si sentono a casa. Per i napoletani sono immediatamente riconoscibili, per gli altri no, ma importa più il lavoro di scenografo e direttore della fotografia (che bravi Fabrizio D’Arpino e Stefano Meloni, accurati e impavidi nel ridisegnarla con una luce scura ma mai cupa, persino nel pestaggio, e con un realismo che non perde magia nel vestirla) che ne fa un luogo nel luogo, dove uno stargate, uno dei tanti di Partenope, ci apre un mondo.

Il mondo di esclusi e sconfitti, di underdog improbabili, padroni di nulla e avidi di vita, in cui le facce di chi rivendica la patria sono feroci e di chi non ce l’ha più sono vicine, simili a noi, non raccontate – e che bella intuizione, questa di D’Amore – come quelle di ospiti, ribelli o anche solo reietti, ma come uomini e donne che in quella città, assurda e meravigliosa, ferita e nobile, universale e unica, si sentono a casa. Soffrono, magari, ma non sono alieni.

Facce normali, che a San Gennaro magari preferiscono Maometto, ma che non hanno alcun problema a farli conoscere, camminare insieme.

Lina Camélia Lumbroso, Toni Servillo e Marco D'Amore in una scena di Caracas

Lina Camélia Lumbroso, Toni Servillo e Marco D’Amore in una scena di Caracas

La strana coppia

Toni Servillo è un alter ego di Rea, Giordano Fonte, smarrito e mai soddisfatto, rassegnato al tramonto della vita e della sua arte (promesso, ma fortunatamente non mantenuto) ma non a quello degli ideali, di cui pure ravvisa l’anacronismo ma pure l’immortalità (arieccola). Marco D’Amore è Caracas – l’unica cosa che non funziona nel film è la capigliatura, parrucca che fa a gara con quella del personaggio che il regista ha nel bello e sottovalutato Drive Me Home -, fascista che nel Duce, nel tatuarselo addosso, cerca la possibilità di sentirsi meno orfano e nell’Islam la famiglia che mai ha avuto. Un uomo puro, Caracas, al limite dell’autolesionismo, che cerca la redenzione con impietosa passione, per sé e per gli altri.

Un uomo del suo tempo, che cerca un appiglio in un mondo post-ideologico che va fiero del suo liberismo intellettuale e antropologico, in cui aspirazioni spirituali e politiche si misurano solo con il metro economico, in cui Robert Kennedy che al PIL preferisce la felicità (non proprio un marxista-leninista, ricordiamolo), fa sorridere. Caracas è l’uomo vitruviano del terzo millennio che si piega su se stesso, un Gesù delle periferie tutto sbagliato lasciato solo dal mondo che si è illuso di poter cambiare, salvare o anche solo abitare con dignità. Caracas è l’uomo sbagliato che fa la cosa giusta. Ma anche viceversa. Caracas siamo noi, ma lui è meno vigliacco e ipocrita.

D’Amore restituisce a questo personaggio fatto di speranza e disperazione una vitalità commovente, come fa con quella vuota del capo fascista Foschi o con quella sensuale e totale di Lina Camélia Lumbroso (che brava). Servillo al suo Giordano dà una profondità che sa improvvisamente trasformarsi in leggerezza, magari regalando una notte in una suite a un gruppo di guagliuncelli e tirando fuori, per questo, un sorriso, che cambia il film, il senso del personaggio, con un pugno di fotogrammi ci racconta tutto di lui. Dell’abisso da cui si sta salvando, o forse no, degli orizzonti lontani a cui non ha mai rinunciato.

Marco D'Amore in una delle immagini più iconiche di Caracas

Marco D’Amore in una delle immagini più iconiche di Caracas

Cos’è Caracas?

Caracas è un film irriducibilmente romantico, è un’opera civile e umanissima, sono 110 minuti di solitudine e neoealismo magico, ma anche un’opera che parla dell’anima profonda di una città che tutti pensano di conoscere, ma che in realtà è lei che conosce tutti e tutto, che è Napoli, ma anche Mumbai, Buenos Aires e sì, pure Caracas, ovvio.

Il terzo lungometraggio di Marco D’Amore è la scommessa di un autore che non sa fare zero a zero, ma che conosce il senso della misura anche, spesso, per poterla colmare e ignorare, che non è rinunciatario nella visione e nella scrittura e anche in quei tre controfinali, di cui uno è probabilmente troppo didascalico (c’è un’unica redenzione per gli ultimi?) e l’altro troppo catartico, denuncia tutto il suo idealismo sfrontato e stracciato, napoletanissimo.

Caracas è Mad Entertainment che si evolve ancora e ancora, è Napoli che racconta Napoli, che resta a combattere, ma che sa, ha capito che andare non è una fuga. È il pretesto, anzi la premessa per un nuovo ritorno.

Caracas, infine, è il nuovo esordio di Marco D’Amore che ricomincia da tre. Dopo la filiazione del “suo” Gomorra e un documentario, ecco che, come sempre cominciando dal punto più alto e difficile, si cimenta davvero nella finzione, fa un film d’autore sfidando lo scrittore più complesso e sfaccettato e profondo di una generazione, partigiana e idealista, che ha provato a cambiare il mondo, poi ci ha provato con una singola città e alla fine probabilmente ha perso.

Perché così si finisce a tener la mano agli sconfitti, agli ultimi. Ma perché i primi barano, mentre i Caracas, davanti agli occhi ematici e dolenti dei Giordano, si accontentano di briciole di ideologie e religioni. Sono Cristi orfani di Dio, patria e famiglia.