Johnny Rotten che urla “no future!” a favor di camera, David Bowie con cappello e impermeabile che vaga sul lungo Tamigi, Paul McCartney, Ringo Starr e George Martin riuniti per la prima volta insieme dopo lo scioglimento dei Beatles per suonare su un tetto. Sono solo alcune delle iconiche trovate visive di Julien Temple, uno tra i più grandi documentaristi musicali e registi di videoclip mai esistiti, il primo a registrare la nascita del punk e dei Sex Pistols e a fotografare “a metà tra fiction e realtà” alcuni tra i punti più alti della musica del Novecento.
Racconta con inspiegabile naturalezza della vita che ha vissuto, Temple. Ricorda David Bowie che lo definiva “his little brother” e la reticenza di Shane MacGowan nei suoi confronti. Racconta degli esordi del punk, delle creste colorate e delle borchie della Londra anni Ottanta, vissuta da spettatore (e amatore) attivo di un’epoca ormai irraggiungibile, punto ultimo dell’evoluzione musicale, che spera di portare con sé anche nel presente.
Julien Temple è una personalità sfaccettata e lungimirante, ben oltre la suggestiva carriera e l’infinito elenco di esperienze e collaborazioni incredibili che annovera nella sua filmografia. Spazia tra musica e cinema in una ricerca figurativa e artistica che va avanti da quasi cinquant’anni e che non è intenzionato a lasciarsi alle spalle. Il Seeyousound Festival di Torino dedica un’intera giornata di retrospettiva a lui e ai suoi documentari, cercando di spiegare il genio di un’artista che nella vita ha saputo fotografare vividamente Glastonbury, raccontare i Cure e dirigere Tom Petty. In centinaia di esperienze incredibili e diverse, rese più vicine dal proposito artistico di sovvertire le regole. Quello che d’altronde definisce “il suo obiettivo nella vita”.
Si è imposto sin da subito come uno dei registi di videoclip più acclamati al mondo. Come è riuscito a creare sin da subito una credibilità tale per cui i grandi artisti si affidassero a lei?
Dovremmo chiederlo a loro (ride, ndr). Ho sempre visto i video musicali come un nuovo medium, mi incuriosiva vedere cosa avrei potuto farci. Ho provato a oltrepassare tutti i limiti, a vedere fin dove ci si poteva spingere. Venivo dal panorama punk, e alcune delle persone con cui mi sono trovato a lavorare, come Bowie o i Rolling Stones, avevano voglia come me di sovvertire questo mezzo nuovo, ancor prima che iniziasse a camminare da sé.
Potremmo dire che ha dato via all’epoca aurea dei videoclip. Pensa che sia definitivamente finita, dando magari spazio a delle vie più immediate e figlie di quest’epoca storica?
Sui social ci sono tante nuove possibilità in grado di rimpiazzare i videoclip. Ma penso che i documentari musicali siano un’alternativa ancora migliore per capire e apprezzare la musica dal suo interno. Il videoclip, man mano, è diventato un nuovo mezzo pubblicitario gestita delle etichette discografiche, in poco tempo tutto era più controllato e meno sperimentale. Agli albori dei video musicali nessuno sapeva cosa fossero. Io per primo, potevo fare ciò che volevo inconsapevolmente. Potevo rompere le regole.
Sente di averle infrante?
Spero di averlo fatto, e mi auguro di starlo facendo anche ora. È il mio obiettivo nella vita.
Ha rappresentato e fotografato tanti posti nella sua carriera, da Ibiza a Rio. Ma prima di tutto ha saputo fotografare realisticamente la rivoluzione musicale londinese nel suo Absolute Beginners. Cosa pensa di quel film col senno di poi?
Credo sia un glorioso fallimento. Non ha ottenuto tutto ciò che mi aspettavo, ad essere onesto, ma mi sento ugualmente fiero. A livello visivo rimane qualcosa di potente anche a distanza di anni. Ci sono tante idee politiche dentro, e all’epoca, in Inghilterra era difficile digerire il fatto che la musica potesse essere un veicolo politico. Per questo dico che è stata una vera sfida. O meglio, un glorioso fallimento, come dicevo prima. Ma sa, a volte i fallimenti sono più soddisfacenti dei successi.
Com’è stato lavorare con Bowie, suo protagonista nel film?
Era fantastico, esattamente come lo si può immaginare. Per girare Absolute Beginners siamo stati per un po’ di tempo a stretto contatto. Lui mi chiamava il suo fratello minore, il che è qualcosa di assurdo già di per sé, perché il suo fratellastro era una figura davvero speciale per lui.
David era una forza creativa straordinaria, ma di lui ricordo soprattutto la normalità, la sua stranezza all’interno dello star system. Era il ragazzo della porta accanto, a tratti era anche noioso, e nel corto Jazzin’ for Blue Jean (diretto dallo stesso Temple, ndr), tutto questo traspare a pieno. Sapeva di essere noioso a tratti, e fu coraggioso a tal punto da mostrare questa sua velleità in video. Che a pensarci, forse, è qualcosa di altrettanto straordinario.
È regista del documentario Crock of Gold: a Few Rounds with Shane MacGowan, in cui ha rappresentato un personaggio controverso e contraddittorio, scomparso di recente e ancora incompreso a molti.
Non ero sicuro di volerlo fare, perché Shane aveva la reputazione di uno con cui era molto difficile lavorare ed entrare a contatto. Voleva tantissimo che io girassi questo documentario, ma la prima cosa che mi ha detto quando ho accettato di farlo è stata: “Sappi che non farò nessuna intervista. Fottiti e fatti questo film da solo, non collaborerò”.
Il tutto ha fatto sì che dessimo vita ad un progetto assurdo. Non sarebbe stato lo stesso se mi avesse detto “Ok, sediamoci e ti dirò tutto ciò che vuoi”. Ho dovuto trovare delle vie alternative per capirlo e per raccontare la sua forza creativa incredibile. È stata una bella esperienza, ma piuttosto complessa.
C’è un lavoro di cui si sente particolarmente soddisfatto?
Non sono solito guardare i miei video e i miei documentari, in realtà. Non vedo l’ora di vedere la mia retrospettiva al Seeyousound, per vedere qual è la reazione del pubblico torinese ai miei lavori. La cosa di cui sono più soddisfatto è la prossima cosa che farò.
Sente di avere qualche rimpianto?
Aver tentato di mettere troppe cose insieme in un unico film.
Ha lavorato con i pilastri della musica. Ha vissuto attivamente il punk londinese, una scena musicale che ad oggi sembra irraggiungibile, solo idealizzabile. Come ci si sente ad essere stato parte integrante di un movimento così importante?
È strano dirlo ma sì, ne sono stato parte attiva. C’ero, ed ero lì con una videocamera, forse il primo a riprendere quell’ambiente ai suoi albori. Ora tutti hanno un telefono con cui riprendere ciò che succede, e fa strano pensare che all’epoca ero l’unico che fotografava quei momenti, quella realtà.
Sono stato parte di un enorme movimento rivoluzionario. Ricordo benissimo quando ci siamo resi conto che potevamo cambiare il mondo pur essendo giovani: avevamo tutta la passione necessaria per farlo, e mi sento tristezza pensando che non ci siamo davvero riusciti. Il tempo corre, la specie si estinguerà tra poco, e i giovani devono rendersi conto che sono gli unici che possono fermare questo tracollo.
Si sente mai nostalgico riguardo questo potere sovversivo giovanile di cui parla?
Sa, sono vecchio ora. Ci ho messo molto a comprendere di essere stato parte di qualcosa che può essere considerato storicamente importante. E rendersene conto fa paura. Continuo ad amare l’attitudine che c’era all’epoca, ma il tempo cambia l’energia, cambia il modo d’essere, cambia il corpo. Ad ogni modo, spero di portare ancora un po’ di filosofia punk anche in ciò che faccio attualmente. In questo senso non sono nostalgico, sono motivato a guardare al futuro.
C’è un ritorno al punk nella musica di oggi. Crede che nel panorama attuale ci sia qualche genere capace di rievocare quello slancio innovativo?
Non saprei, è tutto più controllato ora. Quando ero piccolo era davvero complesso entrare nel mondo della musica, era qualcosa che dovevi bramare e meritare fino in fondo. Ora le cose sono diverse, non devi girare il mondo per farti vedere, non devi vivere la strada, non devi girare da solo nel mezzo della notte di ritorno dai club dove vai a suonare. È diverso anche l’attaccamento alla musica di oggi.
Cosa intende?
In un mondo in cui le informazioni arrivano già gonfiate, è sempre più difficile trovare la propria strada e creare il proprio percorso come fece il punk nella Londra degli anni Ottanta. In risposta alla situazione culturale attuale, si deve andare addirittura oltre la musica, che non basta più al pubblico. Le persone vogliono anche altro, vogliono il contorno, l’immagine, la politica. Il punk oggi si è trasformato in un fenomeno old school. Non è più una ribellione politica e creativa di massa che tenta di andare contro ogni sistema.
L’era punk è definitivamente finita?
Niente è mai andato oltre il punk: di lì in poi, non c’è stato più nulla. Forse solo l’hip hop degli inizi aveva una carica sovversiva analoga, ma non c’è mai più stato un movimento artistico o musicale simile, una tendenza così estrema.
La tendenza punk riemerge a fasi alterne, quando le persone hanno bisogno di fare soldi con una nuova moda, torna per un paio di mesi e poi va via di nuovo. Sarebbe bello tirare fuori qualcosa di altrettanto rilevante, ora che il tempo della clessidra si sta pian piano esaurendo. Sarebbe imbarazzante pensare di finirla qui, essere l’unica specie nella storia dell’universo che si autodistrugge.
Lei è da oltre cinquant’anni un ibrido tra cinema e musica. Cosa rappresentano queste due arti per lei?
Cinema e musica sono due vie per esprimere il senso di ciò che sei. La cosa magnifica dell’arte cinematografica è che si muove di pari passo col mondo. È sempre una novità, perché spezzetta la realtà e la assembla in maniera diversa ogni volta.
La musica – così come la moda e la scrittura – sembra essersi esaurita, e attualmente tenta continuamente di riprendere il passato. È piuttosto difficile creare forme nuove nel pop: da Elvis Presley in poi sembra tutto una ripetizione continua, senza particolari novità. Invece necessitiamo delle nuove possibilità. Per me non esiste vita senza la musica. E se esiste, non è vivibile.
Ad ogni modo, musica e cinema insieme costituiscono una relazione esplosiva. È come quella tra Roberto Rossellini e Ingrid Bergman, due energie che diventano impossibili se messe in relazione tra loro.
È difficile farle comunicare?
In realtà è meglio che non venga sempre facile. Musica e film possono uccidersi a vicenda se non si scelgono e ideano con cura. È il caso di tantissimi video musicali. Sa, col senno di poi non sono proprio certo che i videoclip siano adatti alla musica.
Perché?
I video ti permettono di associare la musica ad un solo scenario, quando dovresti disporre di milioni di possibilità di immaginare ciò che ascolti. Invece la musica nel cinema è un elemento che rende il film potente, e ancor di più lo è la mancanza di musica.
Ha raccontato di essersi approcciato al cinema con Jean Vigo. Per quanto riguarda i documentari sente di essersi ispirato a qualcosa?
Amo profondamente Don’t Look Back, il docufilm su Bob Dylan diretto da D.A. Pennebaker. Ma in realtà non guardo documentari musicali, preferisco farli senza guardarne altri. In generale, penso di essere stato più influenzato dal cinema in senso stretto. Se c’è qualcuno che mi ha ispirato in particolare, è Orson Welles con F for Fake. I migliori film sono stralci di realtà e i migliori documentari sono giochi a metà tra reale e finzione.
Cosa c’è nei suoi piani per il futuro?
Potrei fare qualcosa di immersivo sul punk. Ha presente le immersive experience? Vorrei fare qualcosa del genere sul punk e sui Sex Pistols in questi termini, mettendo su un progetto enorme. Come dicevamo prima, sono stato parte attiva dei videoclip, dell’esordio dei documentari musicali, quindi vorrei essere parte anche di questo nuovo modo di mostrare immagini e musica.
Il suo documentario The Clash: New Year’s Day ‘77 è stato pubblicato quasi quarant’anni dopo essere stato realizzato. Chissà che non abbia ancora del materiale inedito da far uscire.
Materiale inedito dice? Ne ho molto poco, ma ora conosco nuove modalità di usare il materiale vecchio (ride, ndr).
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