Virginie Efira: “Sono un’attrice e sono fortunata, se urlo contro un’ingiustizia riesco a farmi sentire”

L'icona del cinema francese presenta al festival Rendez-Vous il film Niente da perdere, di Delphine Deloget, in cui interpreta una madre a cui viene sottratto un figlio. Opera che comunica anche con Il coraggio di Blanche, in cui è vittima di un rapporto tossico: "Il cambiamento nella società è ancora lontano". L'intervista di THR Roma

Gli ultimi film della carriera di Virginie Efira stanno segnando una linea retta che collega le diverse protagoniste e storie che l’attrice – belga, naturalizzata francese – interpreta, stringendosi sempre più su una dimensione quotidiana e personale, che crea un continuo ponte tra i diversi titoli. Il genere può variare, se pensiamo ai toni thriller di La doppia vita di Madeleine Collins e il dramedy de I figli degli altri. Ma la base resta costante: un prisma di donne ordinarie, che a suo modo Efira riesce a rendere inusuali.

Capita anche con Niente da perdere, film di Delphine Deloget, presentato durante il festival di Rendez- Vous – e in sala dal 1 maggio – in cui interpreta una madre a cui viene sottratto dai servizi sociali il figlio più piccolo. E, a suo modo, si rivede anche ne Il coraggio di Blanche di Valérie Donzelli, dove la violenza domestica diventa la prigione di cui la protagonista si ritrova ad essere vittima.

Nelle sale italiane arrivano Niente da perdere e Il coraggio di Blanche, due film che, ognuno a proprio modo, pongono le protagoniste a confronto con delle ingiustizie. Lei come le affronta?

Prima di tutto è importante individuare il sistema che mette in atto ciò che definiamo ingiustizia. A volte è lo Stato, altre volte può essere una dinamica di coppia, proprio come vediamo nel film di Valérie Donzelli, che si tramuta al punto da diventare una dittatura. Purtroppo è lo step più complicato. Ovviamente parlo per personaggi come Blanche e Sylvie, perché per me Virginie è quasi troppo facile. Facendo l’attrice ho una fortuna che non tanti hanno, ovvero di venire ascoltata, soprattutto se mi metto ad urlare contro un’ingiustizia.

Pensa che la politica in Francia si stia muovendo per contrastare una piaga come quella dei femminicidi?

Il cambiamento è ancora lontano. È felice constatare che, almeno nel lessico, la società si è posta il problema del dare il nome corretto a questo tipo di omicidi, chiamandoli femminicidi, e non più delitti passionali. Ma la situazione non è rosea. C’è chi ai piani alti pensa che le nostre siano solo lagnanze, quando la verità è che mancano i fondi per coprire tutti gli ambiti di una corretta parità di genere. È una coperta troppo corta, che non raggiunge la prevenzione, le risorse, gli ambiti finanziari e giudiziari. C’è ancora lentezza nel processare le denunce di violenza, figurarsi arrivare in aula. Il percorso è lungo e esige politiche precise.

Ha per caso visto C’è ancora domani di Paola Cortellesi? È un film che affronta il tema della violenza domestica ed è stato bene accolto in Francia.

Ancora no, ma ne hanno parlato benissimo. Non vedo l’ora di vederlo.

Pensa che immedesimarsi nel ruolo di una vittima possa contribuire ad aumentare l’empatia verso chi ha la sfortuna di vivere situazioni di disagio? Da un rapporto tossico a una madre a cui viene sottratto il figlio.

Non so se qualcosa dentro di me deve necessariamente smuoversi. Da interprete, per arrivare a determinate emozioni, tendo più a riprendere sentimenti vissuti partendo dal mio privato, ripescando eventi da cui attingere per la verità dei personaggi. Sono io che innesto qualcosa di me nei ruoli. Quindi ripenso a quella volta in cui io ero la vittima, a come mi sono sentita. Per alcune parti è possibile farlo, per altre il procedimento diventa più complicato, come in Riabbracciare Parigi dove impersonavo una donna vittima di un attentato: non avendo passato quell’esperienza non posso prendere dal reale, ma mi affido completamente alla rappresentazione.

Rappresentazione che sta cambiando se pensiamo alle madri che ha interpretato negli ultimi anni, e di cui veste i panni anche in Niente da perdere. È cambiato il modo di guardare alla maternità?

Sì e sono felice della nuova rappresentazione che la Francia le sta dando. Il punto di vista si sta modificando, perché le madri stesse non sono più quelle del passato. Il merito è stato del MeToo, se parliamo di opere audiovisive, perché ha permesso ai personaggi femminili di risultare più ambivalenti. Gli schemi della maternità stanno prendendo una forma diversa, essendosi accorti finalmente che si tratta di un tipo di genitorialità ben più complessa di come ce l’hanno voluta spesso propinare.

E lei ne sa qualcosa, essendo diventata da poco madre per la seconda volta.

Ho una figlia di dieci anni e ho partorito il secondo a settembre. La maternità non può essere più uno stereotipo, né nella vita vera, né nelle storie. Per molto tempo c’erano racconti di madri con delle ambizioni a cui hanno dovuto rinunciare per non intaccare il rapporto con i figli. Finalmente questo modo di guardare alle cose è cambiato. Come il fatto che le donne di una certa età non rappresentano più una maternità ristretta al loro vissuto, ma possono essere da esempio per le nuove generazioni, così che i giovani possano maturare un’idea differente di quella che è stata imposta per tutti questi anni.

Per prepararsi a Niente da perdere ha ascoltato le testimonianze di persone che hanno vissuto vicende simili?

Me ne sono interessata sia prima che dopo, ma ad un livello personale, non professionale. Avrei trovato volgare ispirarmi a vicende o avvenimenti reali. Mi ha interessato però apprendere da Delphine, che ha fatto le dovute ricerche, come funzionano le procedure dei servizi sociali. Nonché come anche un’istituzione così strutturata possa prendere una deriva disfunzionale, mettendo le persone in una situazione kafkiana di stallo, mostrando un sistema che diventa la caricatura di se stesso.