Tutti i volti di Luca Zingaretti: “Vivere è come recitare. Significa essere vigili rispetto a ciò che ti succede intorno”

"Le carceri italiane sono un luogo tremendo dove nessuno vorrebbe mai capitare, ma ho scoperto che hanno un loro lato umano", commenta l'attore, che dà vita al personaggio di Bruno Testori nella seconda stagione de Il Re, in onda su Sky e Now. E che qui parla anche dei segreti del suo mestiere, di Montalbano e del suo esordio da regista. L'intervista di THR Roma

Quello di Luca Zingaretti è uno dei volti più riconoscibili del nostro paese. Il suo Commissario Montalbano è uno dei miti televisivi del costume italiano – forse, al suo pari, in quanto a fama e a numero di stagioni – solo il Don Matteo di Terence Hill. Ma il ruolo più popolare degli attori è un po’ come la grande hit dei cantanti: è necessario imparare a farci i conti, cercando di non arrivare mai all’intransigenza. Ecco allora che prende il via un percorso difficile, che diventa possibile solo se si riescono a trovare dei ruoli altrettanto validi e potenti. E se il precedente è un personaggio che prende vita dalla penna di Andrea Camilleri, l’impresa è ancora più difficile.

Eppure, Zingaretti la porta a compimento. Dopo quasi 40 anni di carriera, si sa ancora sorprendere dei nuovi obiettivi. Non solo delle storie, ma anche del loro contorno, delle possibilità umane che veicolano. Dà il suo corpo a Bruno Testori, il protagonista de Il Re anche nella seconda stagione, in onda su Sky e Now dal 12 aprile, questa volta chiuso in una cella e separato dalle sbarre dal corridoio che prima percorreva sicuro e invincibile.

“È vero, le carceri italiane sono un luogo tremendo dove nessuno vorrebbe mai capitare, ma ho scoperto che hanno un loro lato umano”, dice, rispetto a quella capacità di stupirsi ancora del proprio lavoro, che veicola conoscenza e eterne prime volte. “È pieno di gesti di umanità, di tenerezza e solidarietà. Di amicizie che passando per un percorso così duro diventano salde. Non è certo un educandato, ma c’è anche un rovescio della medaglia”.

La seconda stagione de Il Re si apre con Testori all’estremo opposto di dove l’avevamo lasciato: dietro le sbarre. Poco dopo la situazione muta di nuovo. È difficile cambiare diametralmente prospettiva rispetto a un unico personaggio?

Più che difficile, lo trovo bellissimo. È come avere una palette infinita di colori con cui giocare. Il difficile arriva quando il personaggio ha poche cose da raccontare o quando le modifiche su di lui sono minime. In questo caso, la vita di Testori è stata attraversata da un treno in corsa che l’ha preso in pieno. Qualunque cosa io avessi deciso di fare sarebbe stata giusta: si tratta di scegliere i colori giusti di quell’abbondanza, quelli che ti piacciono di più.

Quali ha scelto lei?

Ho giocato molto sulla paura fisica di essere fatto fuori e sullo sconcerto di trovarsi in fondo a un pozzo e non sapere come uscirne. Nell’arco di 24 ore ho perso tutto, mi vogliono fare fuori, non ho amici a cui appellarmi. Che faccio, che succede? La prima cosa che devi fare è capire, mettere sul tappeto una strategia.

Qual è la strategia che mette in atto lei, come attore, per entrare dentro questi ruoli?

I metodi sono tanti quanto sono gli attori. Io mi preparo al personaggio leggendo tutto quello che c’è da leggere. Tu dai degli input al cervello e lui, mentre stai facendo un’altra cosa, te ne manda di nuovi: giro sempre con un taccuino su cui scrivo le mie impressioni. Una volta che ti sei fatto un’idea del personaggio, descrivi i suoi perché, le motivazioni che lo muovono, crei una backstory, un passato, e cerchi di verificarne la coerenza. È quello che gli inglesi chiamano stage business: tridimensionalizzare, interrogarsi su come si veste, su come si muove, su come cammina, su come agisce, su come parla.

Luca Zingaretti ne Il Re

Luca Zingaretti ne Il Re

Parlava di non giudicare, ma dell’essere un’analista del personaggio.

Giudicare è una nostra prerogativa, significa farci un’idea di quel che c’è davanti. Ma nel momento in cui hai davanti un personaggio, se ti metti nell’ottica del giudizio, ti limiti. Tu fornisci senza difese tutte le informazioni su di te, e l’analista cerca di capire come funzioni per aiutarti. Io cerco di capire come funziona il personaggio per restituirlo al pubblico

Questo sguardo non giudicante sente di averlo anche nella vita, a prescindere dal lavoro?

Come tutte le cose, se le usi tanto nel lavoro, diventano quasi un’abitudine. Io ce l’ho proprio di mio, cerco sempre di capire chi ho davanti, non mi interessa giudicare. Poi insomma, chi è senza peccato scagli la prima pietra, capita pure a me di giudicare. Però diciamo che ho la fortuna di essere una persona molto curiosa.

Le risulta ancora facile stupirsi dopo una carriera fatta di tanti successi?

Non ho mai fatto delle scelte per convenienza, ho lavorato tanto perché mi piace farlo. E mi piace farlo perché ancora mi stupiscono delle cose, ancora mi divertono. Il giorno in cui non mi piaceranno più, potrei tranquillamente lasciare e fare altro.

Tipo?

Tipo scrivere, dipingere, aprire un chiringuito su una spiaggia in Brasile o aprire un’azienda agricola e coltivare la terra. Vivrei 14 vite per poter fare tutto quello che mi piace.

Un po’ ci si riesce facendo questo mestiere, no?

È vero, un po’ ci si riesce. Un po’ immaginando di vivere altre vite, un po’ perché ti lascia anche tanto tempo libero. Riporto quello che mi insegnò il maestro Sergio Graziani, un grande doppiatore e attore di teatro, che diceva: “Girate sempre con un taccuino, perché la vita sorprende”. Già solo appuntare fa sì che quella cosa lì resista al tempo e all’oblio. Quindi vivere, e recitare, significa anche questo: essere vigili rispetto a quello che ti succede intorno.

Quindi il filo rosso di tutti i suoi lavori è uno stupore continuo?

Il filo rosso è il cercare. Soprattutto agli inizi, è normale fare le cose per portare la pagnotta a casa. Ho fatto tante cose di cui mi sono annoiato, che non mi sono piaciute. Ma ora il filo rosso è quello di raccontare cose che in quel momento reputo interessanti, al di là delle riflessioni sulla convenienza.

E poi c’è un’etica del lavoro: lo devi fare bene ovunque lo fai. Non devi fare bene solo all’Argentina di Roma o al Piccolo di Milano, devi fare bene pure a Canicattì nel teatro da 25 posti di cui 18 sono vuoti. In questo senso, mia moglie parla della sindrome di pane e mortadella, una metafora per dire che ho un forte senso del lavoro.

Non si è mai adagiato sugli allori?

Delle mollezze e delle piacevolezze me le sono concesse, ci mancherebbe. Però sul lavoro no. Se mi chiamano a fare una serata, io mi preparo come facevo trenta o quaranta anni fa, perché so che si aspettano Luca Zingaretti. E si possono aspettare un Luca Zingaretti che dice “io un mestiere ce l’ho già, gliela intorto” oppure un Luca Zingaretti che li emoziona realmente. In entrambi i casi, io la serata l’ho fatta, me la sono portata a casa. Però sono sicuro che se ne faccio una seconda, se sono andato preparato, loro torneranno con voglia e felicità di vedermi.

Alla base del suo impegno c’è solo l’ambizione personale o anche la voglia di stupire?

Uno vorrebbe sempre che il proprio lavoro fosse apprezzato da tutti, ma è intollerabile chi cerca di fare il furbetto senza riuscirci. Quando sapevo di aver fatto uno spettacolo brutto, andavo a leggere le recensioni con il pensiero di vedere se li avevo fregati. Se sapevo che avevo fatto un bello spettacolo, non me ne fregava niente delle recensioni.

Un'immagine da Il commissario Montalbano

Un’immagine da Il commissario Montalbano

Lei è stato per oltre vent’anni il commissario Montalbano, un patrimonio della serialità italiana. Dopo, aver lavorato con Camilleri, le capita di pensare che sarà difficile superarsi?

Il punto che abbiamo toccato è altissimo, ma le cose cambiano. Il successo è qualcosa che dipende molto poco da noi, è come il meteo. Adesso c’è il sole, che colpa ne ho se domani piove?

Non mi sono mai prefissato come obiettivo il successo. Quando ho fatto Montalbano, per così tanto tempo, ho sempre trovato tanti buoni motivi. Sa, è un genere molto alto, di letteratura trasformata: quelli di Camilleri non erano solo dei gialli: attraverso i suoi romanzi raccontava una sua visione della vita e dell’esistenza filosofica. Avevamo trovato un modo per raccontarlo in immagini, azzeccato a pieno dal regista Sironi, perché  trasmetteva quel senso di immaterialità dei racconti, queste strade vuote senza una macchina. Le camminate su spiagge solitarie che si era inventato, i tempi dilatati, queste dimore antiche, ricordo della propria infanzia. Questo mondo mi ha affascinato da morire. Ogni volta cercavo di scoprire, di trovare altra roba. Però, una volta che l’ho chiusa mi sono sfregato le mani e ho detto “questa terra è stata esplorata, scoperta e colonizzata. Adesso via verso nuovi orizzonti”.

La infastidisce che tanti continuino a relegarla solo a quel ruolo?

Per me sarà sempre un vanto. Abbiamo fatto una punta di 44- 45%, di ascolti, oltre13 milioni di persone. Siamo stati esportati dovunque, abbiamo conquistato territori che da un punto di vista televisivo e cinematografico erano chiusi alle nostre produzioni e abbiamo inondato la televisione mondiale: mi fermano per strada ovunque vada. Era una cosa che mi piaceva fare, ne sono tutt’ora profondamente orgoglioso. Ovviamente, poi, c’è qualcuno a cui rode e ti fa la battutina un po’ cattiva, ma chi se ne frega? Io sono qua, continuo a fare cose importanti e belle. Di che cosa mi dovrei rammaricare?

Ha da poco concluso le riprese del suo esordio alla regia, La casa degli sguardi. È stato anche quello un tassello che sentiva di dover aggiungere?

Era un desiderio che avevo da circa una decina d’anni. In teatro, chi racconta la storia è sempre l’attore. C’è ovviamente il regista, ma dalla prima è l’attore che decide quale pausa fare, quale parola sottolineare, a chi far raccontare la storia.

Ho una grande voglia di sperimentare questo mezzo così diverso dal teatro e di raccontare una storia dal mio punto di vista. Ci avevo già provato nel 2008, con un’esperienza non andata in porto, nonostante fosse già tutto pronto con contratti firmati. Quattro anni fa ho letto questa storia, tratta dal libro omonimo di Mincarelli, mi ha appassionato e ho detto “ok. Lo faccio”.

Il suo è l’ennesimo esordio alla regia in un anno particolarmente fortunato da questo punto di vista. Vede un futuro aureo per il cinema italiano?

Non lo so. Vedo dei segnali di rinascita, di ricrescita, di risveglio. Dopo il 2019, in cui addirittura paventavamo la chiusura dei cinema, mi sembra che quest’anno siano usciti non solo tanti film di successo, ma tanti bei film. E sono quelli che tengono viva la fiamma.