Beatrice Borromeo Casiraghi: “Ne Il Principe racconto il dolore che mi ha spinto a fare la giornalista”

Nel giorno della morte di Vittorio Emanuele di Savoia, riproponiamo l'intervista alla regista della docuserie su Netflix che racconta vita e ombre del figlio di Umberto II e di Maria José del Belgio e il tragico omicidio di Dirk Hamer sull'isola di Cavallo in Corsica che lo vide principale imputato. In attesa della prossima, sulla "presa della rocca di Monaco da parte dei Grimaldi"

Il Principe, docuserie in tre episodi su Netflix, racconta la battaglia di Birgit Hamer, sorella del diciannovenne Dirk, morto ammazzato nella notte tra il 17 e il 18 agosto, nella sciagurata sparatoria di Cavallo, in Corsica, a due bracciate dalla Sardegna, di fronte a quell’Italia vietata per legge ai discendenti maschi di casa Savoia: Vittorio Emanuele e il suo adorato figlio Emanuele Filiberto.

A mettere insieme i pezzi su questa triste vicenda per ristabilire la verità è Beatrice Borromeo Casiraghi. Dell’argomento si parlava spesso in casa sua, perché la madre, Paola Marzotto, era una delle più care amiche di Birgit. Un documentario nato per esorcizzare la sensazione di impotenza rispetto a come siano andate le cose, alla cortina di protezione creata intorno a Vittorio Emanuele e sfociata in una sostanziale impunità. All’inadeguatezza dell’avvocato della difesa e non ultimo alla falla nel sistema giudiziario francese.

Gli ingredienti nella serie per avere successo ci sono tutti: l’omicidio, gli insabbiamenti, la massoneria, il traffico d’armi, l’aristocrazia, i ricchi, i poveri, gli arricchiti, l’omertà, la tragedia e in un certo senso anche il lieto fine. Il tutto mescolato bene, senza tanti fronzoli, nessun vittimismo, senza la voglia di cercare vendetta ma solo raccontare un triste capitolo di una assurda e complicata faccenda che ha causato tanto dolore, sia nelle vittime che nei carnefici. Un racconto fatto da una intraprendente giornalista, ex modella, ex conduttrice televisiva, moglie di Pierre Casiraghi, ultimo dei tre figli di Carolina di Monaco, mamma di Stefano e Francesco, adesso anche regista e prossimamente produttrice. Con il favoloso mondo delle Royal Family, adesso che ne fa parte, ci convive, serenamente e continuando a fare quello che faceva prima, lavorare tanto e bene.

Il suo prossimo e ambizioso progetto è realizzare il The Crown sulla sua nuova famiglia: i Grimaldi del Principato di  Monaco, la famiglia reale più longeva d’Europa. “La mia società Astrea Films sta producendo il film sulla presa della rocca di Monaco da parte della famiglia Grimaldi nel Medioevo – ci rivela Borromeo durante l’intervista di THR Roma – siamo molto felici che Chapter 2 di Dimitri Russam, Pathé e Morgan O’ Sullivan, produttore di Viking, siano entrati in questa mia nuova avventura che prevede di esplorare vari capitoli delle storie dei Grimaldi anche con altri progetti”.

Tornando al presente, quanto tempo ci è voluto per realizzare Il Principe?

Due anni e mezzo circa. L’idea mi è venuta la mattina dopo aver visto Sampa (la serie Netflix su San Patrignano, ndr). Credo fosse l’inizio del 2021. Mi sono detta che anche la mia storia, come quella di Vincenzo Muccioli, è una vecchia storia che andrebbe rimessa in ordine. Un racconto che ha un grande impatto sul presente. Il fatto che le figlie di Birgit fossero ancora intrappolate in questa vicenda, così come Emanuele Filiberto. Il fatto che ci fossero ancora tanti medici radiati dall’albo perché seguaci delle teorie elaborate da Geerd Hamer, padre del ragazzo ucciso, sulla cura del cancro. Sono onde di una storia lontana che continuano a infrangersi sull’oggi. Mi chiedevo: perché? La risposta secondo me è che quando la verità non salta fuori, i danni continuano a ripresentarsi. Finché non si rimettono a posto le cose.

Ha detto che ora spera di aver chiuso un capitolo doloroso della sua vita. Perché?

Questa storia ha fatto parte della mia infanzia perché mia madre, Paola Marzotto, era una delle più care amiche di Birgit, quindi parte della mia famiglia da sempre. Una vicenda di cui si parlava in casa, anche con una certa sensazione di impotenza rispetto ai fatti, a quello che era successo, all’impunità che alleggiava intorno a Vittorio Emanuele. Credo che sia stata una delle storie che ha fatto sì che scegliessi di diventare giornalista.

Girando la serie ha scoperto qualcosa che non sapeva?

Tante cose. C’è stata una grandissima confusione intorno a questa vicenda. Mettere in fila i pezzi è stata una novità, anche in casa mia. La stessa Birgit ha scoperto molte cose che non sapeva. Io credo che creare confusione e procrastinare sia stata la strategia difensiva degli avvocati del Principe. Tutta la storia del tiratore fantasma, la ricostruzione delle barche, gli esami balistici che dimostrarono che non poteva essere accertata al 100% la provenienza del proiettile dal fucile del Principe. Non dimostrarono mai che non fosse stato lui, cosa che mi ha ribadito anche il figlio del suo avvocato, che nel frattempo è morto, inviandomi le carte della difesa.

Una difesa portata avanti dalla tenace consorte Marina Doria.

È la grande protagonista, nonostante il documentario riguardi Vittorio Emanuele. La serie ha due grandi protagoniste femminili, Birgit Hamer e Marina Doria. Donne che hanno impiegato la stessa tenacia e la stessa determinazione per raggiungere due scopi opposti. Sono loro i motori di tutto ciò che è successo, nel bene e nel male.

Emanuele Filiberto di Savoia e Marina Ricolfi Doria

Emanuele Filiberto di Savoia e Marina Ricolfi Doria

Perché Marina Doria non si è fatta mai riprendere?

Sono riuscita a intervistarla solo in audio perché lei, per una questione di età, non voleva farsi riprendere in volto. Ci siamo arrivati vicini varie volte, ma non sono riuscita a convincerla. Alla fine, comunque, ha deciso di partecipare.

L’ha aiutata il figlio, Emanuele Filiberto?

È stato fondamentale, mi ha aiutato tantissimo nell’avvicinarmi ai suoi genitori, nel creare il contesto in cui fosse possibile parlare, ascoltarsi e raccontare tutto. Con sua madre addirittura, visto che non stava bene, è stato proprio lui, tecnicamente, ad intervistarla con le mie domande. Ha aiutato anche nel recupero di materiali privati: filmini di amici di famiglia che passavano l’estate a Cavallo, girati all’epoca in Super 8. Ha avuto un comportamento molto collaborativo. Sono convinta che l’abbia fatto perché, affrontando lui stesso questa faccenda, il “caso” potesse chiudersi e risolversi. E magari non ricadere sulle sue figlie, che non dovranno subire tutto ciò che è capitato a lui in 50 anni.

La sua reazione quando ha visto il prodotto finito?

Gli ho mandato la serie due giorni prima della messa in onda, insistendo con Netflix. Per me era importante che avesse tempo per trarre le sue conclusioni prima del clamore mediatico. Ho cercato di lavorare a fondo, di non essere di parte: ci tenevo ad avere il suo parere. Mi ha detto che ovviamente c’erano tante parti che non gradiva, ma che lo trovava un documentario equilibrato.

Avete ancora buoni rapporti?

Quando ha visto il documentario mi ha scritto: “siamo ancora amici…” Con tanti puntini di sospensione.

Famiglia Hamer

Famiglia Hamer

I testimoni oculari della triste vicenda hanno fatto tutto il possibile per aiutare Birgit?

Oggi sì. Si sono veramente messi a disposizione. Hanno fornito i ricordi, i materiali in loro possesso ed espresso la loro verità. Però è stata la prima volta in oltre 40 anni.

Se ad essere ucciso fosse stato uno dei “pariolini”, invece di Dirk Hamer, le cose sarebbero andate diversamente?

Io penso che in qualunque contesto in cui lo Stato è assente, e c’è un grande fallimento del sistema, la differenza la fanno i mezzi e le capacità delle persone di proseguire la propria battaglia per la giustizia. Evidentemente, nel gruppo di quella notte, Birgit e Dirk erano i più deboli. Dal punto di vista della protezione sociale e dei mezzi. Certo non di tempra, perché Birgit è andata avanti tutta la vita. Non ha mollato mai, non so quante altre persone sarebbero riuscite a non voltare mai lo sguardo.

Tra i testimoni c’è sua madre. Come è stato intervistarla?

Ho chiesto a Marco Ponti di intervistarla, non potevo farlo io. Trattandosi di una storia di cui abbiamo parlato tantissimo, sapevo che sarebbe stato impossibile per lei raccontarmela come se fosse stata la prima volta. Senza dare cose per scontato, senza voli pindarici, senza usare le stesse parole di sempre. Quando le storie diventano così intime e familiari, le si racconta quasi sempre con gli stessi termini. Io ero seduta di fianco a Marco, che le ha fatto le sue domande e le mie. Ne è uscita un’intervista, penso, molto bella. Che dimostra anche onestamente l’attaccamento di mia madre a questa storia.

Che le ha detto sua madre del documentario quando l’ha visto?

Era contenta, le è piaciuto.

Dove ha intervistato il Principe?

A Gstaad, in Svizzera. Lo stesso chalet dove andò alla vigilia della morte di Dirk Hamer, riuscendo a lasciare la Corsica.

Vittorio Emanuele di Savoia intervistato da Beatrice Borromeo

Vittorio Emanuele di Savoia

Ci racconta il dietro le quinte dell’intervista? Cosa e chi c’era in quella stanza?

C’era Emanuele Filiberto su un divanetto vicino, che andava e veniva. Sua moglie ci ha accolti tutti, da grande padrona di casa, e poi se n’è andata. È riapparsa a fine intervista. Era uno chalet che raccontava di una dinastia, più che di una famiglia. Vittorio Emanuele si è seduto sotto la sciabola di… non mi ricordo se fosse Vittorio Emanuele II o il padre. C’erano foto della regina Maria Josè, il suo cane labrador nero che si chiama Chinnok come gli elicotteri che vendeva per Corrado Augusta. Ci ha portato a vedere la campana che era andato a inaugurare il giorno dell’arresto, quando lo prelevarono proprio dalla chiesa. Lo portarono a Potenza con la Panda. Quel racconto straordinario mi ha provocato ore di risate al montaggio. Ne dice di tutti i colori.

Il famoso viaggio in arresto durante il quale ha dovuto pagare la benzina e tutto il resto. 

Ha dovuto pagare il cibo e le birre, ma il punto era come lo raccontava. Vittorio Emanuele si è trasformato davanti ai nostri occhi in tanti personaggi diversi. E lo faceva in maniera molto fisica, col linguaggio del corpo: quando raccontava di suo padre si rannicchiava, nella posizione che assume un bambino quando viene sgridato o messo in punizione. O quando ha raccontato che veniva lasciato da solo durante le vacanze in collegio. Questa parte non l’ho montata. Volevo far emergere la sua infanzia anaffettiva, ma senza ferirlo. Non volevo nemmeno vittimizzarlo.

Ha tagliato altro?

C’era un filmino di Vittorio Emanuele e Emanuele Filiberto in campeggio, abbracciati. Raccontavano che faceva freddissimo, e che erano riusciti ad accendere il fuoco dopo ore. Un bellissimo racconto.

A proposito di Spagna, ci sono state conseguenze sul fuori onda finale dove Vittorio Emanuele rivela le dinamiche della morte del fratello di Juan Carlos?  

In Spagna ha suscitato grande interesse e i maggior quotidiani hanno messo in relazione i due incidenti, quello italiano e quello spagnolo. Per la Spagna le rivelazioni di Vittorio Emanuele sul principe Alfonso morto nel 1956, all’età di quattordici anni, per mano del fratello Juan Carlos, allora diciottenne, mentre stava pulendo la sua pistola sono stati une vero e proprio scoop.

Beatrice Borromeo

Beatrice Borromeo

Perché ha deciso di usare anche il nome da sposata per questo lavoro?

Perché penso che la mia identità oggi sia talmente legata alla mia vita in famiglia, che mi sembra giusto rispecchiarlo nel lavoro. Onestamente penso che sia anche grazie a mio marito se oggi ho la serenità sufficiente per poter guardare le cose con distanza.

Magari un certo tipo di femminismo che rivendica l’indipendenza dai mariti potrebbe non aver gradito.

Non vedo come adottare anche il cognome di mio marito, possa rendermi meno indipendente o meno forte, anzi.