Le Ravissement, la doppia faccia delle bugie secondo Iris Kaltenbäck: “Volevo mettere in discussione il mito della maternità”

"Quel che trovo molto forte e tragico nelle menzogne è quando funzionano, quando il reale viene creato dal falso e può dare vita a qualcosa di positivo": parla la regista del film vincitore della prima edizione del premio Alice nella città @ Rendez-vous per le opere prime. Protagonista una straordinaria Hafsia Herzi nei panni di un'ostetrica al centro di un inganno da cui non riesce più ad uscire. In sala dal 24 aprile. L'intervista di THR Roma

Capelli lisci raccolti e camicetta bordeaux con delle fantasie a forma di fiori esaltata da una collana e un paio di orecchini dorati. Iris Kaltenbäck, minuta, è seduta in una poltrona di un albergo romano e gesticola mentre risponde alle domande di THR Roma sul suo bellissimo debutto, Le Ravissement (qui la nostra recensione). Presentato in anteprima al festival dedicato al cinema francese dove ha vinto la prima edizione del premio Alice nella città @ Rendez-vous per le opere prime, il film arriverà in sala il 24 aprile con Satine Film (dopo il passaggio alla Semaine de la critique di Cannes 76 e aver fatto incetta di riconoscimenti un po’ ovunque, compreso il Torino Film Festival).

Protagonista Hafsia Herzi nei panni di Lydia, una giovane ostetrica che, dopo una serie di imprevisti, si ritrova al centro di un vortice di menzogne da cui non riesce più ad uscire e che coinvolgono anche la vita di chi le sta intorno. Ad innescarle l’incontro con Milos (Alexis Manenti), autista di bus notturni, che fa crescere in lei il desiderio di una relazione. “Non volevo condannarla, ma dare speranza e mostrare che una menzogna può anche creare qualcosa di positivo”.

Hafsia Herzi e Alexis Manenti in una scena di Le Ravissement di Iris Kaltenbäck

Hafsia Herzi e Alexis Manenti in una scena di Le Ravissement di Iris Kaltenbäck

Al centro del suo film c’è una bugia enorme. Eppure è proprio l’espediente che dà vita a un sentimento reale. Era interessata ad approfondire la sua duplicità?

Sì, è proprio questa complessità che mi ha interessata fin da subito. Era l’idea che, allo stesso tempo, questa bugia avrebbe scosso una storia di amicizia e dato origine a una strana storia d’amore. Alla fine c’è qualcosa di positivo. Quel che trovo molto forte e tragico nelle bugie è quando funzionano. Quando il reale viene creato dal falso. È stata proprio questa complessità della menzogna, che non è né tutta nera né tutta bianca, che mi ha affascinata.

In effetti, ho cercato di non giudicare mai i personaggi e di esplorare il loro punto di vista. Sono tutti legati dalla stessa bugia ma, contemporaneamente, le cose non sono mai veramente univoche. Ecco perché, ad esempio, volevo avere un’apertura finale, una nota più positiva. Non volevo condannare Lydia, ma dare speranza e mostrare che una menzogna può anche creare qualcosa di positivo. È umano.

La storia è ambientata a Parigi. Una metropoli che lei racconta però attraverso la solitudine dei suoi personaggi.

Sono cresciuta a Parigi e volevo ritrovare la sensazione che provo tutt’ora in questa città. Ovvero quando cammino per le sue strade mi sembra ci sia come una moltitudine di solitudini che si incrociano, ma senza incontrarsi veramente mai. È come una specie di grande ballo dove, a volte, si creano dei legami. Ma c’è comunque una sorta di solitudine che emana da ogni persona. Ho sempre pensato che avremmo potuto seguire ognuna di loro e ne avremmo tratto un grande romanzo, storia o film. C’è qualcosa di romantico in ogni persona che vive nella sua solitudine in questa città. Con la direttrice della fotografia Marine Atlan abbiamo parlato molto del sentimento. Perché ciò che è sempre molto difficile nell’immagine è farlo.

Come ci siete riuscite?

Ciò che ci ha aiutato è stato parlare molto di impressionismo e di pittura. Non solo facendo un documentario sulla città, ma cercando di usare i colori. Nel film la notte è piuttosto buia ma, allo stesso tempo, ci sono colori o luci che risaltano molto fortemente. Taxi Driver è stato una grande ispirazione, ma anche fotografi come Harry Gruyaert. È come se l’impressionismo aiutasse a far provare questo sentimento di solitudine. È anche per questo che ho vestito Hafsia con un cappotto rosso. Volevo risaltasse nella notte, mentre è molto sola. Inoltre avevamo degli imperativi. Abbiamo filmato tutto in modo abbastanza documentaristico. Prima di tutto perché non avevo i mezzi economici (ride, ndr) ma anche perché non volevo avere tante comparse. Volevo registrare i volti reali delle persone in città. Ci siamo mosse tra realismo e romanticismo.

Hafsia Herzi in una scena di Le Ravissement di Iris Kaltenbäck

Hafsia Herzi in una scena di Le Ravissement di Iris Kaltenbäck

Mostra una madre naturale che soffre di depressione post partum e una donna che accudisce una bambina come fosse sua. Crede sia anche compito del cinema raccontare una maternità diversa da come ci è stata imposta?

Penso che oggi, proprio grazie all’emergere di sempre più registe e di nuove storie, forme e modi di raccontare i personaggi femminili, ci sia davvero un nuovo approccio alla femminilità, alla maternità. Ma anche alla mascolinità. Ed è vero che in questo film ciò che mi ha toccato molto era l’amicizia tra queste due donne. Volevo mettere in discussione il mito della maternità. Perché oggi ci rendiamo davvero conto di quanto, fin dalla notte dei tempi, abbiamo ereditato un mito che inizia con la Vergine Maria. Che ci crediamo o meno, è comunque una storia enorme e pesa sull’idea che abbiamo della maternità. Quando guardiamo a tutte le storie della Bibbia o della mitologia greca, c’è davvero una concezione molto forte che ci è stata trasmessa, e che penso che dobbiamo davvero interrogarci e dirci: “Cosa me ne faccio come donna?”.

Lydia, all’inizio del film, non desidera essere madre.

Al contrario, sente piuttosto il peso di ritrovarsi improvvisamente sola. Simile a quello di tante donne dopo i trent’anni anni. “Hai una relazione?”. “Quando diventerai mamma?” Poi, attraverso quella menzogna, incontra la bambina della sua migliore amica e si comporta come una madre. Attraverso queste due donne ho meso in discussione la complessità di ciò che ci è stato tramandato. È una domanda che mi pongo spesso: “Com’è essere madre?”. Ci sono molti modi e non necessariamente legati al sangue. Si trattava davvero di interrogarsi, senza necessariamente dare una risposta. Penso sia importante che nelle rappresentazioni, e soprattutto nel cinema, le cose si muovano in modo tale da permetterci di prendere una nuova consapevolezza.

Hafsia Herzi in una scena di Le Ravissement di Iris Kaltenbäck

Hafsia Herzi in una scena di Le Ravissement di Iris Kaltenbäck

Ricostruisce la storia di Lydia a ritroso e fa capire agli spettatori che la donna è stata protagonista di un processo. Quest’anno Anatomia di una caduta ci ha ricordato però che la verità non sempre la si trova nelle aule di un tribunale.

Non penso che le aule di tribunale o i processi non abbiano nulla a che fare con la verità. Ho lavorato per un avvocato penalista e ho assistito a molti processi in cui venivano giudicate le donne. Ci sono molti esperti, avvocati, pubblici ministeri, giudici. Molti professionisti che parlano di questa persona, del suo passato, delle sue azioni. E avevo la sensazione che stessimo perdendo la voce dell’accusato. È quella che sentiamo di meno. Ciò che è complicato in un processo è la necessità del giudizio e credo implichi necessariamente delle semplificazioni.

Quando devi giudicare se qualcuno è colpevole o meno c’è bisogno di una risposta. Il che significa che, come nella vita, devi semplificare le cose, schierarti. Ricordo che ero seduta in tribunale e mi dicevo: “Non voglio essere coinvolta nel giudizio”. Penso che il cinema possa permetterci di avvicinarci a questa donna o a chiunque è lì in mezzo e di cui quasi dimentichiamo la voce. Lo possiamo fare attraverso la finzione, l’immagine, il suono, la storia, ma senza l’imperativo del giudizio. Mi sono detta: “ Voglio tutto tranne il giudizio. Voglio provare ad entrare nelle sfumature”.

Non le interessava parlare di innocenza o colpevolezza, dunque.

No. Volevo fare un film su una donna e sulla complessità di tutti i piccoli passi da formica che, scena dopo scena, l’hanno portata a chiudersi in questa bugia e a non riuscire ad uscirne a lungo. Questo è ciò che mi interessa molto nel cinema. Ho davvero cercato di rendere tutto il più umano possibile. Ho provato a dire a me stessa: “Hai mentito nella tua vita”. È vero, quella di Lydia è una bugia enorme. Ma ho cercato di fare riferimento al meccanismo che conoscevo e che tutti conoscono. Dici una bugia che, all’improvviso, porta a un’altra bugia e così via. C’è un’espressione in francese – “chi ruba un uovo ruba un bue” – per sottolineare come, da una piccola cosa si arrivi a un problema enorme. E così ho provato a gestire quell’uovo.

Perché ha scelto di raccontare questa storia attraverso la voce fuori campo di Milos?

Avevo bisogno di un altro punto di vista, che era più vicino al mio. Ovvero quello di un uomo che non sa nulla di Lydia. Si sente preso in giro. Lydia è un enigma per lui, così come lo è per me. In questo modo può porsi tutte le domande del film, senza necessariamente dire di conoscere la verità. All’inizio non vuole avere una relazione. Ma questa bugia all’improvviso fa nascere in lui il desiderio di paternità, lo riporta alla sua famiglia, sente che esiste in modo diverso.

Anche se per la giustizia non vale niente, nella storia vale qualcosa. E nel mio rapporto con questa donna vale qualcosa. Ecco perché ho scelto questi due punti di vista. Parto da una frustrazione vissuta durante i processi, è vero. Come Anatomia di una caduta trovo interessante quest’idea legata alla loro finzione. Ma so che sono necessari per la società. C’è della verità. Solo che è, necessariamente, semplificata.