Alberto Paradossi: “Tutto ciò che ho scelto mi ha portato a Zamora. Dalla stand-up in America alla chiamata di Gianni Amelio”

Classe '89 e nato a Lucca, l'attore è alla sua prima volta da protagonista dopo cinque anni in ruoli piccoli o da comprimario. Ma il regista Neri Marcorè, al debutto alla regia, "mi ha sollevato da qualsiasi pressione". Per salvarsi dal narcisismo, però, ci si deve pensare da soli. O chiedere a un terapista. L'intervista a THR Roma

Alberto Paradossi nasce a Lucca nel 1989, si trasferisce a Roma e poi gira il mondo, andando da Londra a New York. Sarebbe finito a lavorare in un ostello a Buenos Aires se non avesse ricevuto “la chiamata”. Era il 2020 e l’attore compare al fianco di Piefrancesco Favino in Hammamet di Gianni Amelio, e anche se il ruolo è esiguo, è il trampolino che gli permette di cominciare veramente a considerare la recitazione una carruera. Da lì, sempre parti piccole o da co-protagonista, da Guida astrologica per cuori infranti su Netflix a The Net nel 2022. Ci sono voluti cinque anni prima di diventare il personaggio principale, e l’occasione è arrivata con Zamora, debutto alla regia di Neri Marcorè.

Due novelle anime affine – lui per la prima volta protagonista assoluto, Marcorè dietro la camera da presa – per il racconto di Walter Vismara, ragioniere costretto a giocare a calcio nella sua azienda pur di non perdere il posto e di conquistare l’amata. Un calciatore talmente scarso da assumere un ex professionista ubriacone e maleducato per farsi aiutare. In anteprima nazionale al Bif&st, il film è ispirato dall’omonimo romanzo di Roberto Perrone, anche lui all’esordio nel 2002 col libro riadattato da Marcorè insieme a Maurizio Careddu, Paola Mammini e Alessandro Rossi. E in sala dal 4 aprile.

Cosa è nato dal suo incontro con Neri Marcorè?

Sono cresciuto con la comicità di Neri. È stato come incontrare un mito, e non nei termini in cui la mette sempre Fabio Fazio. È qualcuno che ha realmente rappresentato qualcosa per il mio immaginario e rimasi molto colpito della sinergia che si è creata fin dal primo incontro. Andò tutto molto bene, c’è stato grande coinvolgimento e un ottimo ascolto da entrambe le parti, cosa che non succede sempre ai provini.

E far parte del suo debutto da regista?

È un direttore d’orchestra molto puntuale. Pignolo, a volte, ma solo perché vuole che tutto sia perfetto. E così è stato. Nonostante avessimo delle affinità caratteriali, vedevamo in maniera diversa il ritmo del personaggio. Ricordo che durante una scena lo sentivo ridere. Ho pensato: bomba, gli piace. Poi dà lo stop, mi si avvicina e mi confessa che aveva pensato al personaggio in maniera diversa. Però, allo stesso tempo, che ci avevo visto bene. Da qui è nata una condivisione continua, in cui spingevo per uscire dagli stereotipi e Neri che sapeva come tenermi a bada quando rischiavo di fare troppo. Ma è così che abbiamo raggiunto una visione a 360 gradi di Walter Vismara, una contro-idea, si può dire. Un tipico timido e introverso che alla fine, però, si rivela un vero narcisista.

E lei? È un narcisista?

Il narcisismo ha sfaccettature illimitate. Il lavoro dell’attore, poi, si basa sull’ego, nel senso neutrale del termine, lo stesso che ti porta su di un palco o davanti alla telecamera. C’è anche un narcisismo positivo, di certo non è quello di Walter, più improntato sull’essere passivo-aggressivo. Il film è ambientato negli anni sessanta, la società era ancora più patriarcale, e appena il protagonista vede il personaggio di Ada baciare un altro uomo, per lo più sposato, la stigmatizza subito come donnaccia. La verità è che Walter è un vigliacco, ma con Neri abbiamo cercato di spiegare il suo punto di vista, rendendolo più digeribile e accettabile. È necessario, altrimenti il pubblico non ti segue. Ma è evidente che deve superare quella sua barriera. E come si fa? Intanto cominciare ad andare da un terapeuta non sarebbe male. E poi provando a superare le proprie zone di confort così da aprirsi più al mondo. Carmelo Bene diceva che il nostro mestiere si fa col cuore ed è col cuore che provo ad esprimermi nel lavoro e con gli altri. Provando a superare il mio narcisismo.

Alberto Paradossi e Neri Marcorè sul set di Zamora

Alberto Paradossi e Neri Marcorè sul set di Zamora

Se si riesce a superare il narcisismo, come si fa invece con il senso di responsabilità dell’essere per la prima volta il protagonista?

L’approccio tranquillo di Neri mi ha sollevato da qualsiasi pressione. Ovviamente la preoccupazione c’era, ma lui era sempre con me, a veicolare quell’agitazione e a rendere tutto disteso. Posso dire di aver percepito una grande fatica fisica, ma mai emotiva o mentale. In fondo ero presente in ogni scena e ancora non mi era mai capitato. E proprio per questo sapevo di non poter permettere nemmeno ad una crepa di insidiarsi, altrimenti sì che non sarei arrivato alla fine delle riprese. Sono stato fortunato e mi sono divertito. Ora sono cinque anni che perseguo davvero la carriera d’attore e posso dire che sul set di Zamora ci tornerei anche domani.

Anche per giocare a calcetto?

No, per il calcetto no. Lo ammetto, avevo una controfigura, non potevo certo essere io a fare quei salti. Non con sole due settimane di preparazione. Però ho avuto vicino Stefano Sorrentino, storico portiere con più di cinquecento presenze in serie A. È nata subito una simpatia e, mentre ci allenavamo insieme, è nato anche un certo affetto.

Al di là delle squadre. Lei per chi tifa?

Juve.

Quindi non ha continuato ad allenarsi dopo le riprese del film?

Un attore è in costante allenamento. Non devi mai smettere di studiare per mantenerti costantemente attivo. Come in questo momento: sto studiando francese e cercando di imparare a suonare la chitarra. Quando sei sul set, ma prima ancora ad un provino, devi essere veloce, elastico, reattivo. E l’allenamento è una realtà a cui non mi sono potuto sottrarre quando sono entrato al Centro sperimentale. C’erano lezioni di acrobatica e di danza obbligatorie. Un insegnante, poi, mi disse che pesando novanta chili avevo due opzioni: o rimanere così e, anzi, irrobustirmi di più per diventare un caratteristica, o mangiare meglio e bere meno per avere più possibilità di diversificare i ruoli.

Non le sembra un modo limitante di guardare alla recitazione e ai ruoli?

Sì, ma non voglio essere frainteso. Quando arrivai al Centro ero molto pigro, lì mi insegnarono la disciplina, che a sua volta mi ha portato a ragionare sul fatto che, per la fisicità di alcuni ruoli, è necessaria una certa neutralità del corpo. Mi fece riflettere tanto. Non riguarda il livello estetico, ma interpretativo. Bisogna ascoltare il corpo. Non per sbatterlo sulle copertine, ma per prepararlo al lavoro, perché poi è lui che parla davanti allo schermo, molto più di un qualsiasi testo.

Cinque anni prima di interpretare il ruolo del personaggio principale. Ma dove e cosa è stato nel suo passato? Cosa ha fatto?

Mi muovevo, esistevo. Ed è stata proprio la mia fortuna, muovermi tanto. Ho studiato recitazione un anno e mezzo a Londra dove per mantenermi, ovviamente, facevo il cameriere. Poi ho passato sei mesi a New York dove ho alternato un corso di recitazione ad uno di stand-up comedy, che può non sembrare, ma è un ottimo esercizio per gli attori. C’era questa convenzione molto figa per cui la scuola permetteva di esibirsi in alcuni locali tra Manhattan e Brooklyn. Sono scappato nel 2014, nel 2016 e nel 2018. Poi è arrivata la chiamata.

Del divin codino?

No, di Gianni Amelio per Hammamet. Stavo per andare a lavorare in un ostello a Buenos Aires. Probabilmente avrei anche lasciato la recitazione. Ho frequentato il Centro sperimentale e il primo anno fuori dalla scuola non è affatto facile. È la gavetta della gavetta. Facevo da spalla ai provini e la sera lavoravo nei catering. Ero arrivato ad un momento di rottura. Andare a New York, ad esempio, mi ha letteralmente salvato.

Se non l’avesse chiamata avrebbe rinunciato?

Rinunciato non so. Non direi. Ma devo dire che ho avuto diversi momenti alla sliding doors nella mia vita. Mi era già successo nel 2012, quando ero appena arrivato a Roma a vent’anni. Continuavo a provare ad entrare nelle accademie famose, ma non ci riuscivo, tanto che mi sono affidato a una scuola più piccola. Quando ero pronto per lasciare tutto, per andare a Londra e mettere in stand-by la recitazione, ecco che mi prendono al Centro. Come per Hammamet, insomma. Nel film ho un ruolo piccolo, sono il figlio del Craxi interpretato da Pierfrancesco Favino. Ma in quel momento la mia percezione è totalmente cambiata. Probabilmente, doveva andare così.

Qual è la soddisfazione maggiore?

C’è il riconoscimento da parte degli altri, sì. Ma sono orgoglioso dei quindici anni che ci sono voluti per arrivare a questo. Perché poi uno pensa: ho avuto così tanti dubbi, eppure ogni scelta è stata giusta. Basta non farsi prendere dal delirio di onnipotenza. Anche perché adesso, continuare, è ancora più tosta.

Walter Vismara in Zamora deve affrontare un gruppo di colleghi arroganti. Ha mai avuto a che fare con i bulli? Come li affronta?

Ho vissuto la mia zamorata a sette anni – e sì, è un termine che mi sono appena inventato. I miei mi mandarono a giocare a pallone. Ma non ti becco un ragazzino stronzo con i genitori stronzi che mi prendeva sempre in giro? Sono durato un mese. Un giorno sono tornato a casa e ho detto ai miei genitori che non sarei mai più andato. Mi vergognavo a dire il motivo della mia decisione, visto che non c’entrava nulla il fatto che mi piacesse o meno il calcio. Anzi, mi piaceva, era proprio questo il punto. Così ho cominciato a fare quello che, almeno in Italia, consideriamo l’esatto opposto, ossia basket.

E come è proseguita?

Ero anche bravino. Avevo circa quattordici anni. Poi un bagnino mi buttò per giocare in piscina, mi divincolai e mi ruppi la gamba a bordo vasca. Feci una fisioterapia lunghissima e mi ingessarono anche male l’arto. Tornato un anno dopo sul campo trovai tutti i compagni più alti di me di trenta centimetri. Fu lì che lasciai un’altra volta, e che arrivò la recitazione.

Un’altra sliding doors?

Totalmente. Fu sempre un’idea di mia madre. È una professoressa di inglese, ma ha fatto parte di una compagnia di teatro amatoriale per trent’anni e un giorno mi ha detto di andare con lei perché non ce la faceva più a vedermi stravaccato sul divano.

È diventata quindi una passione? Non lo è sempre stata?

Vedevo i lavori di Corrado Guzzanti, di Neri Marcorè, mi facevano ridere. Avevo tredici anni, non potevo già fare un’analisi critica dei film di Gian Maria Volontè e Mariangela Melato, anche se ora ne sono grande fan. A quell’età volevo solo condividere la comicità che mi piaceva con gli altri e la scuola-teatro che ho frequentato mi ha dato un’enorme possibilità di esplorare un mondo bellissimo fatto di testi da rivisitare e di libertà.

E adesso che è adulto come fronteggia i prepotenti?

Non ho timore di ammettere che, se sento di non riuscire più a gestire una situazione, posso finire per rompermi e piangere. Esce il mio ego ferito, soprattutto quando qualcuno non prova rispetto nei miei confronti. Per Walter il calcio è un detonatore emotivo che gli consente di confrontarsi con gli altri. Per questo rappresenta l’essere umano nella sua interezza, oltre la distinzione tra uomo e donna, è una persona che si scontra con le sue paure. Purtroppo io tendo a chiudermi di fronte agli arroganti, ma non dobbiamo temere di non piacere a tutti, di dire ad alta voce che non sei d’accordo o permettere a qualcuno di farti sentire inadeguato. So che la nostra società è indottrinata da un velo cristiano-cattolico, ma colpevolizzarsi non è la soluzione. E nemmeno alzare muri.

I social di certo non aiutano. È un bacino in cui sembra che tutti abbiano come unico desiderio insultare gli altri.

Per questo, per me, sono una gran fonte di difficoltà. Non ne sono un amante, ma non mentirò, è il mezzo più efficace con cui comunicare, soprattutto per un attore. E ammettiamolo, a tutti piace impicciarsi degli affari degli altri. La verità è che siamo noi a usare i social in modo incorretto, non sono loro a sbagliare qualcosa. Ascoltando proprio recentemente Morning di Francesco Costa ho scoperto che uno scienziato ha constatato che i pensieri suicidi sono aumentati esponenzialmente nei ragazzi nati dal 2005 in poi, coloro cresciuti a pane e Instagram. Fanno continui paragoni con gli altri, pensano che chiunque abbia una vita della Madonna, invece le altre persone sono sole esattamente come loro. Con un mal di testa gigante per l’hangover del sabato mattina dopo aver passato tutti la stessa serata di merda.

Alberto Paradossi in Zamora di Neri Marcorè

Alberto Paradossi in Zamora di Neri Marcorè

Per una serata romantica, invece, Walter e Ada vanno al cinema. È l’appuntamento ideale?

Magari per rompere il ghiaccio, con persone che si sono conosciute poco prima. Vai a vedere un film, poi ne parli, vedi come va. Ma è un rischio. E se a uno dei due è piaciuto il film e all’altro no? Con me, poi, se inizi ad usare argomenti che trovo totalmente decentrati rispetto alla pellicola viene fuori il morettismo 2.0.

Meglio andare da soli?

Mi piace molto. Lo preferisco, anzi. Mi dà l’occasione di rimandare il giudizio, di portare il film a casa, di fare una auto-recensione. È come piantare un seme e arrivare una settimana dopo a dire: ‘Cavolo quanto mi è piaciuto quel film!”. È accaduto con Perfect Days di Wim Wenders. Ho adorato come articola la solitudine, sarà perché non mi fa più paura, anzi, prima sentivo di dover uscire sempre, soffrivo se pensavo di aver sprecato tempo, invece ora ho capito che mi piace stare da solo, prendermi il mio spazio. E quel finale. Quel finale in cui gli passano duemila emozioni sulla faccia in sessanta secondi. Lo guaderei a ripetizione.

Per Walter, però, riuscire ad uscire con Ada è un obiettivo che sembra quasi irraggiungibile. E sarà anche per lei che proverà a migliorare le sue prestazioni a calcio. Qual è la cosa più pazza che ha fatto per conquistare qualcuno?

Una volta ho rincorso con una bicicletta la mia ex che era in macchina urlandole ‘Ti prego, fermati, ti prego’, Una brutta litigata, niente di insormontabile, avrò fatto qualche cavolata. Solo era una di quelle situazioni in cui pensi: ‘Adesso mi pianta, è finita’. Non avevo la patente, l’unica cosa a portata di mano era la bicicletta di mia madre, allora sono salito al volo e ho iniziato a pedalare. A un certo punto credo di aver urlato anche ‘Non sono un uomo finito’ come Nanni Moretti in Sogni d’oro. Era mezzanotte e mezza e avevamo diciannove anni. A un semaforo rosso l’ho superata, mi sono inginocchiato sull’asfalto e l’ho pregata di scendere.

Tra l’altro, sia Walter che Ada, sono due grandi amanti di Federico Fellini.

È il mio autore preferito. Mi piace la sua magia onirica mischiata con la commedia amara. Sono sempre stato affascinato delle relazioni dei suoi personaggi, sapendo che erano altri tempi, ovviamente. E il merito è di mio nonno, che colse il momento adatto in cui farmelo conoscere.

Lei lo ha anche interpretato in Permette? Alberto Sordi. Un altro ruolo o un adattamento che le piacerebbe interpretare?

Mio fratello stava ascoltando il podcast OP – Omicidio Pecorelli e ho proprio pensato che mi piacerebbe da matti fare un bel film politico o di spionaggio. Un’opera che catapulterebbe il pubblico nella frenesia e nella paranoia degli anni di piombo, facendo un affresco delle dinamiche che hanno condotto ai figli di oggi. Non saprei però chi potrebbe fare la regia. Elio Germano, invece, sarebbe credibile come Mino Pastorelli.

Non vorrebbe farlo lei, il protagonista?

Non serve. Farei più qualche eminenza grigia. La verità, comunque, è che se potessi vorrei fare una commedia diretta da Mazzacurati, ma non si può. Mi sarebbe piaciuto essere diretto da lui.

Senta, ma adesso che ha finito con Zamora, un po’ le manca il calcetto?

No, odio correre, ma se proprio dovessi giocare non farei il portiere, mi butterei più sul centro campo.