Rivière, l’adolescenza è una partita a hockey: “Si può sempre trovare il proprio posto nel mondo”

Il regista franco-svizzero Hugues Hariche racconta a THR Roma i personaggi del suo primo film, in concorso ad Alice nella città. "Volevo mostrare la libertà dei giovani nell'esplorare la sessualità e l'identità di genere. E parlare di famiglia"

Un carapace sul ghiaccio è una giocatrice di hockey. Niente è lasciato al caso in Rivière, opera prima del regista Hugues Hariche in concorso ad Alice nella città. La corazza propria dell’attrezzatura dell’hockey sul ghiaccio, lo sport della protagonista Manon (Flavie Delangle dello Skam francese), è la stessa che la giocatrice si è dovuta costruire per difendersi da un’infanzia infelice. “Ho sempre avuto una predilezione per l’adolescenza”, dice il regista a THR Roma, “è l’età della costruzione del sé, della perdita dell’innocenza, dell’esplorazione, un’età in cui le emozioni sono più forti che in qualsiasi altra età, tutto è esagerato e anche tutto possibile”.

Manon ha 17 anni e dalla Svizzera fa ritorno nella sua città natale di Belfort, in Francia. Vorrebbe ricucire il rapporto con suo padre, che l’ha lasciata sola con una madre violenta quando era piccola. “Ma non sa che anche se ci fosse un incontro con il padre, questo non potrà dirle niente né fare qualcosa per lei”. Hariche parla come se il personaggio gli fosse seduto accanto. “Per questo ho scelto di non far mai vedere il padre durante il film, volevo concentrarmi su di lei”.

Rivière, l’ottimismo dell’adolescenza

Con una madre violenta e un padre inesistente non è scontato che gli adolescenti reagiscano come Manon. “Lei è un personaggio forte, ha dovuto costruirsi da sola, ha una rabbia che si porta dietro e che deve incanalare, lo fa attraverso lo sport”. L’hockey è uno sport di contatto, “in cui lei può dare sfogo anche alla violenza che sente dentro di sé in un recinto, in una dimensione protetta”. Anche se con toni cupi, Rivière racconta l’adolescenza con una visione ottimistica esplorando temi diversi, dalla formazione, alla famiglia, alla sessualità e il rapporto col proprio corpo.

“Ci tenevo molto a mostrare, come elemento anche di contemporaneità, la sessualità degli adolescenti di oggi”, spiega Hariche. “Penso spesso al fatto che quando io ho fatto la scuola superiore, all’inizio degli anni ’90, solo una persona si dichiarava omosessuale”, racconta. “Ovviamente non era così ma io ne conoscevo solo una, mentre oggi dirlo è molto più naturale”. In Rivière infatti il genere ha un posto importante, insieme all’amore. Amore in più declinazioni, quando significa anche trovare una nuova dimensione familiare, diversa da quella iniziale.

“Il vintage racchiude tutte le generazioni”

“Non ho voluto mostrare l’adolescenza dei cellulari e dei social media”, dice il regista, “ho di proposito dato una patina vintage al film”. Questo l’ha fatto affinché il film potesse parlare a tutte le generazioni. “Di sicuro essere adolescente oggi è più difficile che in passato, trovare il proprio posto nel mondo è più complicato ma volevo parlare alla mia generazione come a quelle precedenti e future costruendo una storia universale”.

Il legame non di sangue che lo diventa, il desiderio di integrazione, la reazione ai traumi, come trovare l’amore sono i perni intorno cui gira il film. “Mi sono ispirato ai film di Coppola e Gus Van Sant, ai film di formazione che amo da quando sono ragazzo”, dice.

La stabilità apparente di Belfort, coi suoi ragazzi di quartiere, all’inizio inganna. “Sembra che l’altro personaggio principale, Karine, sia più stabile, ha una madre presente, forse troppo, uno sport che ama, il pattinaggio sul ghiaccio, degli amici”. Una tranquillità però solo superficiale. “Alla fine si scopre che il personaggio è in realtà statico e reagisce in modo negativo a questo immobilismo, sviluppando una dipendenza, segno di un disagio, emblema di qualcosa che si sente costretta a fare, che sia pattinare o vivere a Belfort”.

Il viaggio di Manon continua, con l’aiuto del suo mister – unica figura maschile positiva, in contrasto con quella del padre – e della sua nuova famiglia. “Ogni passo di Manon è verso il suo obiettivo, verso la sua realizzazione, vuole diventare una campionessa di hockey e fa di tutto per riuscirci”.

Così si colora di un’altra luce anche il viaggio verso Belfort: “lei è rassegnata, sa che il padre per lei non ci sarà, ma è un’opportunità da non perdere per crescere nello sport”. Il viaggio di Manon è quello di una ragazza già un po’ cresciuta che però mantiene l’incoscienza spensierata dell’adolescenza. “Per lei tutto è ancora possibile, spero che abbia un futuro dopo la fine del film, come Karine, nella cura dalla sua dipendenza. E come tutti gli adolescenti che guarderanno il film”.