Un fardello chiamato Aids, tra esorcismi, invocazioni e resurrezioni: ecco Le Fardeau, di Elvis Sabin Ngaibino

Il film del regista centrafricano è in concorso al Filmmaker di Milano: un viaggio nei meandri di un pregiudizio e del viaggio di una comunità per uscirne (narrazioni da sovvertire comprese)

Elvis Sabin Ngaïbino è un regista nato in Repubblica Centrafricana nel 1985 ed è diplomato in geologia. A 27 anni fonda un’Académie du Cinéma Centrafricain con dei suoi amici e nel 2017, grazie al laboratorio di regia Les Ateliers Varan, realizza il cortometraggio Docta Jefferson. È la storia di un farmacista di quartiere e viene selezionato in diversi festival internazionali. Segue il primo lungo, Makongo. Makongo è un bruco che i pigmei raccolgono nella foresta e usano come moneta di scambio per pagarsi un’istruzione. Il documentario viene premiato al Final Cut della Mostra del Cinema di Venezia nel 2019, nel 2020 riceve due premi al festival Cinéma du réel di Parigi. Stasera Elvis Sabin Ngaïbino presenterà il suo nuovo film, Le Fardeau, per la prima visione italiana al Cinema Arlecchino di Milano, in concorso al Filmmaker Festival (17-27 novembre) dove già era passato tre anni fa con Makongo.

Un segreto che nessuno deve conoscere

Siamo a Bangui, la capitale della Repubblica Centrafricana. Rodrigue e Reine vivono vendendo farina di manioca, hanno tre figli a cui faticano a comprare l’uniforme per la scuola, vorrebbero che Rodrigue diventasse pastore per raggiungere una maggiore stabilità economica. Soprattutto, avrebbero bisogno di soldi per curare il loro segreto, la malattia che condividono e che nessuno deve conoscere.

A Bangui tutto sembra aver a che fare con la religione. La comunità del quartiere si riunisce nella chiesa, lì si raccolgono le offerte, si prega, si canta, si piange, si gioisce della fede stessa. Ci si congratula con una bambina per aver abbandonato la stregoneria, si compiono esorcismi. Il pastore gira per le strade col suo megafono, raccomanda alle persone di accogliere Gesù prima che arrivi la fine del mondo: palesemente imminente. Ed esorta ad amare sempre il prossimo, sempre chiunque esso sia. Tranne forse i malati di Aids: il virus è una punizione divina che colpisce persone peccaminose.

L’Aids è la malattia della vergogna e Rodrigue e Reine non possono fare altro che nasconderla. Rodrigue sta perdendo l’uso di un piede. I medicinali che ha non bastano, suppliche e invocazioni non bastano, non bastano le preghiere e gli esorcismi del pastore e della comunità intera. Marito e moglie si serrano sempre più attorno al loro fardello. Il film inizia con le loro mani nude che scavano un buco nella terra e poi loro, insieme, che issano con infinita fatica una grande e pesante croce: una chiesa che è sostegno e peso insieme, in una doppia morale di accoglienza e giudizio. La stessa comunità che si prodiga per regalare una sedia a rotelle a Rodrigue, non lo accetterebbe mai nella propria comunità se solo sapesse. E tantomeno lo vorrebbe come pastore. A meno che.

Le Fardeu, il fardello della vergogna

A meno che Rodrigue non diventi prima pastore e dall’alto della sua nuova carica e del rinnovato ascolto e rispetto da parte della comunità non decida di liberarsi di quel fardello liberando l’Aids dal peso e dal giudizio che lo avvolgono, e raccontando ai fedeli una storia diversa.

Le Fardeau racconta la storia di un uomo e una donna che si amano e sostengono, della comunità in cui vivono, della possibilità di sovvertire le narrazioni che li (ci) circondano.

E se c’è una narrazione che non è poi così diversa fra lì e qui, anche se magari non si parla di punizioni divine, è proprio quella attorno all’Aids, tutt’ora segreto, fardello, malattia della vergogna. Soprattutto, se per anni è stata una malattia profondamente politica, negli ultimi vent’anni è sprofondata nel silenzio. Sembra non esista più, quando c’è si nomina sottovoce. A volte, ci sono romanzi come Febbre di Jonathan Bazzi che la dicono ad alta voce. E poi film come Le Fardeau che dalle strade di Bangui arrivano fin qui.