Estate 1957. Quattro mesi. Un periodo relativamente breve ma che nella vita di Enzo Ferrari deve essere sembrato infinito. Una profonda crisi umana e professionale attanagliava il Commendatore. Da un lato l’ombra nera del fallimento dell’azienda automobilistica fondata con sua moglie Laura un decennio prima, quando l’Italia era ancora un cumulo di macerie polverose. Dall’altro il naufragare del matrimonio, messo in ginocchio dalla morte dell’unico figlio della coppia, Dino, e l’impossibilità di riconoscere quello avuto dalla relazione con Lina Lardi.
L’unico barlume di speranza dell’ex pilota, capace di cambiare le sorti – perlomeno economiche – è quello di vincere la Mille Miglia, stracciare la Maserati e rilanciare definitivamente il nome e le vendite della scuderia.
Ferrari, un problema di scrittura
Presentato in concorso a Venezia 80, Ferrari è il ritorno al cinema di Michael Mann a otto anni di distanza da Blackhat, action thriller con protagonista Chris Hemsworth. Ma Ferrari non sembra un film di Michael Mann. Gli anni di Heat – La sfida sono lontani. E fa ancora più strano se si pensa al pilot di Tokyo Vice, la serie del 2022 con Ansel Elgort in cui lo sguardo e il tocco registico di Mann erano evidenti. Basato su Enzo Ferrari: The Man and the Machine, biografia scritta nel 1991 da Brock Yates, il film ha la sua maggiore falla proprio nella sceneggiatura firmata da Troy Kennedy Martin (The Italian Job).
Divisa tra dramma familiare ed memorabile rimonta – almeno nelle intenzioni – la pellicola è un biopic classico nella forma che non riesce a far rombare i suoi motori. Tutto il fascino del Mago, l’audacia della sua visione, la meraviglia futuristica del Cavallino non sono pienamente sfruttati per rendere la narrazione altrettanto epica. Ferrari è un film americano (parlando puramente in termini di scrittura). E non c’è niente di male in questo. Non si contano i titoli di film che hanno attinto alle nostre storie e alle nostre icone diretti e interpretati da registi e attori stranieri.
Azione frettolosa e poco originale
Ma il problema è che nel film l’Enzo Ferrari di Adam Driver non ha la capacità di far dimenticare di ascoltare un attore americano che interpreta uno degli uomini più importanti del Novecento italiano. La sospensione di incredulità non avviene. O almeno non nella misura tale da poter entrare emotivamente in connessione con lui, le sue ambizioni, il suo dolore. E questo vale per tutti gli altri personaggi. Ad eccezione di Penelope Cruz, che gioca un altro campionato con il materiale narrativo a sua disposizione.
Oltre due ore di durata con un’ultima parte del film incentrata sulle varie tappe della Mille Miglia. Ma nelle riprese delle corse manca un’originalità registica che lo differenzi, lo renda unico. Basta pensare a James Mangold e il suo Le Mans ’66 dove le sequenze sulle piste automobilistiche avevano una tensione costante. In Ferrari tutta l’azione si concentra verso il finale con una certa frettolosità. Molto è accennato e poi non approfondito. Su tutto la presunta corruzione a suon di mazzette ai giornalisti che gli davano contro suggerita da Laura al marito dopo la tragedia di Guidizzolo in cui la Ferrari 335 S n. 531 condotta dallo spagnolo Alfonso de Portago si schiantò uccidendo undici persone.
Ferrari è un’occasione mancata. Un biopic (troppo) classico che si muove su un rettilineo sicuro senza azzardare mai accelerate o sorpassi. Un film in perenne seconda dove non ci sono curve.
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