Come si può parlare del “Santo patrono della letteratura di Brooklyn” – così lo chiama il New York Times – senza sentirsi piccoli a confronto? Paul Auster si è spento a New York a 77 anni, indebolito da un cancro ai polmoni per cui si curava da anni. Trentaquattro libri tra cui diciotto romanzi, pubblicati tutti a partire dagli anni Ottanta, tranne le raccolte di poesie. Quelle sono arrivate prima, come un istinto naturale, già da ragazzo.
Già in vita era considerato fra i più grandi del postmodernismo, insieme all’amico Don DeLillo, che invitava spesso nel suo salotto di Park Slope, fra le brownstone di Brooklyn, quando ancora non andava di moda attraversare il ponte e perdersi oltre il confine del Dumbo, dove Manhattan non si vede più nemmeno all’orizzonte.
Il narratore “inaffidabile”
Lì le strade sono ugualmente numerate, ma è un mondo diverso rispetto alla 5th Avenue, Central Park o alla stessa Columbia University, dove Auster ha studiato prima di rifugiarsi per diversi anni a Parigi. È diverso anche dal Bed-Stuy (quartiere poco più a nord) raccontato da Spike Lee, negli stessi anni al cinema.
È un microcosmo di cui Auster diventa il primo e a modo suo unico narratore. “Inaffidabile”, come vuole la letteratura postmoderna, perché costantemente coinvolto in ciò che racconta. Personaggio interno alle sue stesse narrazioni.
Come parlarne, dunque, come descrivere la portata di ciò che è stato il suo lavoro, in poche righe? Da grande scrittore qual era, per fortuna, ci aveva già pensato lui. In un’intervista poi pubblicata in L’arte della fame affermava che le sue storie erano come delle favole. Non lontane dai racconti dei fratelli Grimm o dalle Mille e una notte: “Narrazioni scarne, prive di dettagli, in cui tuttavia enormi quantità di informazioni vengono trasmesse in uno spazio molto breve, con pochissime parole”.
Lo diceva a proposito dell’adattamento dei suoi scritti in opere cinematografiche (due co-regia, due regie e sei sceneggiature) sottintendendo tuttavia l’impossibilità di trasferire in un’inquadratura tutto ciò che le sue parole volevano evocare. “Il testo è il trampolino di lancio. La mente riempie poi nei dettagli se stessa, crea le immagini”.
Ecco, forse però sono i suoi stessi film a contraddirlo o, almeno, quel grande film che è Smoke (1995), co-diretto da Auster e Wayne Wang e Orso d’argento alla Berlinale.
Smoke, il debutto alla regia
È in parte vero che la narrazione è scarna e priva di dettagli. Smoke è un cinema che non indugia sui volti, non indaga gli spazi, non scava alla ricerca di qualcosa di più. Aleggia intorno ai protagonisti, come il fumo delle loro sigarette e dei loro sigari Schimmelpenninck (i preferiti di Auster). Il suo senso resta nell’invisibile, “nel peso del fumo” che si scopre solo arrivando al mozzicone, quando cioè il film, sui titoli di coda cantati da Tom Waits, lascia la sensazione di aver capito qualcosa in più dell’umanità, per essersi fermati ad ascoltarla.
Paul, Rashid, Ruby, Cyrus e Auggie, i personaggi di Smoke, sono cinque sconosciuti, ognuno con un segreto destinato a tornare a galla. Cinque persone che entrano in contatto per caso e, sempre per caso, vedono le loro vite trasformarsi. Parlano di baseball e di Bachtin, di amore e di morte, di crack e di denaro.
L’intero film, tranne le ultime sequenze, è ambientato nell’estate del 1990. Poco prima della guerra del Golfo, come si sente in radio. Paul Benjamin, interpretato da William Hurt, è dichiaratamente un alter ego di Auster, non solo perché vi si identifica attraverso il nome, già noto pseudonimo dell’autore, ma perché rappresenta il “narratore inaffidabile” da lui messo in atto.
Paul cioè si intrufola, guida spesso le interazioni degli altri personaggi, indirizza le conversazioni e i loro dialoghi. È solo una parte della storia ma al tempo stesso l’occhio onnisciente, “regista” non a caso del ritmo e del movimento del film. Tra i temi ricorrenti di Auster, Paul rappresenta quello della ricerca identitaria, che si traduce nel riflesso continuo della figura narrante all’interno della storia.
Il rapporto padre-figlio, altro tema molto caro ad Auster, invece, è affrontato tanto nel legame fra Paul e Rashid quanto nei segmenti dedicati a Rashid e Cyrus. Ed è curioso che i due attori che interpretano questi ultimi, Harold Perrineau e Forest Whitaker, siano in realtà coetanei. In modo inconscio rappresentano già una genitorialità impossibile, una relazione sbilanciata o forse del tutto inesistente. Elemento autobiografico, questo, su cui Auster si è spesso interrogato anche in altre opere, come Il libro delle illusioni.
Auggie Wren, da un racconto di Natale
Gli unici personaggi che sembrano sfuggire al controllo di Paul sono Ruby (Stockard Channing) e Auggie (Harvey Keitel). Ruby resta un mistero, svanisce così come arriva e sconvolge per un breve momento la vita dell’imperturbabile uomo, tabaccaio di quartiere con una particolare passione per la fotografia. Più che un hobby, la sua è una filosofia di vita, un altro modo di guardare il mondo trasformarsi. In un certo senso è anche metafora del cinema stesso o della cultura delle immagini.
Tutti gli scatti, apparentemente identici del suo “angolo di mondo”, infatti, immortalano l’esterno della tabaccheria allo stesso orario, ogni giorno. Servono a incontrare e conoscere casualmente gli abitanti del quartiere, tanto quanto serve imparare a memoria la marca di sigari che fumano o il numero di pacchetti che comprano ogni giorno.
Sono diversi, piccoli, dettagli che fanno di Auggie un osservatore e quindi narratore di talento, come nota Paul, che proprio ascoltando una sua storia, messa in scena nel finale, si ispira – a ritroso – per l’intero film appena visto.
In un continuo gioco di specchi, Smoke, infatti, è l’adattamento del vero racconto pubblicato da Auster nel Natale del 1990 sul New York Times e citato all’interno del film. Il racconto di Natale di Auggie Wren, questo il titolo, è poi messo in scena brevemente alla fine, raddoppiato dopo la descrizione orale del personaggio di Keitel.
È in questo finale che, ancora oggi a distanza di quasi trent’anni, si percepisce la forza della scrittura di Auster. Nel modo in cui ogni spettatore immagina la scena nella sua mente, guardando soltanto il primo piano sempre più stretto di Auggie e i rivoli di fumo dei Schimmelpenninck. E come invece, poi, la regia la mette in scena. “Narrazioni scarne” sì, ma enormi e soprattutto indimenticabili “quantità di informazioni”, di nuovo, appunto.
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