Giovanni Allevi: i folti capelli crespi diventati grigi, le mani che tremano – appena un po’ – anche quando volano sulla tastiera del pianoforte. La voce incerta, la piccola risata emozionata, la maglietta stretta, nera, le scarpe da ginnastica. Non suono davanti ad un pubblico da quasi due anni, dice davanti al pubblico ammutolito di Sanremo. Non ho perso la speranza ed ho avuto inaspettati doni, aggiunge. Uno di questi, emette in un soffio la sua sottile voce, è la gratitudine nei confronti della bellezza del creato, il rosso dell’alba che è diverso dal rosso del tramonto e se ci sono le nuvolette è ancora più bello, ma sono doni anche la riconoscenza per la ricerca scientifica. il sostegno della famiglia, la forza l’affetto e degli altri pazienti. “I guerrieri”, così li chiama lui e per un attimo la voce gli si spezza.
Poi cita il filosofo Immanuel Kant – probabilmente mai e poi mai nominato finora sul palco dell’Ariston – parla di neuropatie, di stanze d’ospedale, di dolori indicibili, di vertebre rotte, di dodici mesi interi con la febbre a 39, della musica che è stato costretto ad abbandonare per due anni. Voglio accettare il nuovo Giovanni, dice. E si toglie il berretto, liberando i folti capelli resi grigi dalla malattia. “Com’è liberatorio essere stessi”, quasi piange, mentre abbraccia Amadeus. Il teatro si apre in una lunga, emozionata, ovazione. I numeri non contano, sembra paradossale detto qui. Conta la vita, conta la speranza, dice ancora. Poi suona, il pezzo si chiama significativamente Tomorrow, domani.
Il palco da blu era diventato rosso. “Noi questa sera vogliamo stare dalla parte della luce. Giovanni Allevi, musicista, compositore, scrittore e anche filosofo, suona in pubblico il suo pianoforte per la prima volta dopo la malattia, grave, feroce, che l’ha colpito”, aveva scandito le parole il sommo direttore artistico Amadeus accogliendo sul palco Allevi, che nel 2022 aveva reso nota quella che stasera ha definito la “pesantissima diagnosi”, il mieloma multiplo.
Ecco, per una sera Sanremo ha fatto una cosa che non ha fatto quasi mai. Non con questa forza: ha guardato in faccia la sofferenza. Vale sì, un bel picco d’Auditel, certo, vale la commossa condiscendenza del pubblico in sala e a casa, vale il trend topic su tutti i social per qualche ora, tutto quanto nel segno dell’ecumenismo sfrenato che Sant’Amadeus sta celebrando quest’anno: ma la malattia guardata in faccia è un tabù dei nostri tempi, è rimozione oppure valanghe di parole di circostanza. Qui a Sanremo per una lunga parentesi è stata un’epifania, nonostante la retorica del conduttore – “questa è la forza della musica, questa è una delle pagine più belle del festival di Sanremo” – nonostante i fiumi di inchiostro che verranno versati per almeno quarant’otto ore.
Un minuto dopo il delirio di PsycoSanremo ovviamente riparte con tutto il suo vigore, un minuto dopo l’Ariston diventa “la balera più grande d’Europa” con l’invasione paesana dell’Orchestra Casadei e Romagna mia, ma soprattutto un quarto d’ora dopo va in scena l’imbarazzante, per non dire devastante, gag di Amadeus – ovviamente gli autori gli scrivono una parte alla Alberto Sordi tipo maccaroni (“John, my friend!”) – che replica con un turbatissimo John Travolta i più celebri passi di danza dei film di quest’ultimo fino a scivolare, complice un satanico Fiorello, nell’inabissamento totale del Ballo del quà quà nel quale viene trascinato l’incolpevole Vincent Vega di Pulp Fiction in nome di chissà quanto inconfessabili patti segreti (non abbiamo prove, ma nient’altro può spiegare l’accettazione supina di una scenetta degna degli inferi): c’è tutto, nello stacchetto che finisce scenograficamente davanti all’ingresso dell’Ariston, le papere gialle, le giravolte, le manine a quà quà. “L’Italietta che umilia una star americana: la destra sarà contenta”, commenta con una battuta feroce l’inviato di un grande giornale straniero. E’ l’inizio dell’apocalisse, forse.
Forse è questo l’ecumenismo di Sant’Amadeus, che unisce il meglio e (quasi sempre) il peggio con la stessa ferrea determinazione. Sì, Sanremo 2024 è il consueto pastiche di brutte canzoni drogate d’autotune, elettronica bolsa e patatosa, ugole ultra-enfatiche, una dose da cavalli di sentimentalismo familista (uno del Volo è corso in platea a portare i fiori alla mamma) e ovviamente la solita sequela di dichiarazioni pseudo-epiche.
Così come non manca mai, proprio mai, il consueto balletto “politica sì, politica no” (in attesa dell’arrivo in nottata dei quindici trattori annunciato dagli agricoltori in rivolta, preceduti, i trattori, dalla mucca Ercolina): se Ghali è stato accusato dalla Comunità ebraica di Milano di fare propaganda anti-israeliana nella sua canzone sulla guerra (“ma io il pezzo l’ho scritto prima degli attacchi del 7 ottobre”, replica lui), oggi il giochetto fa dire al cantante Dargen D’Amico – forse un po’ preoccupato delle reazioni al suo appello al cessate il fuoco a Gaza pronunciato la prima sera sul palco dell’Ariston – “non volevo dire niente di politico. Ho commesso molti peccati, anche gravi. Ma non mi sono mai voluto avvicinare alla politica. Ero solo guidato dall’amore”. Frase degna del verso d’una canzone.
Già, e le canzoni? Ecco. Sorvoliamo. Eppure tutta l’Italia vuole stare qui, a quanto pare. Lo dicono i 10 milioni e mezzo di spettatori portati in dono dal Dio Auditel alla prima serata del festival di Sant’Amadeus, tanto da causare diversi orgasmi ai vertici Rai. Niente paura, domani il sabba si ripeterà in tutto il suo dionisiaco delirio.
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