La lotta di Michelle Cho e il cuore fragile della Corea: “Lavoro per un K-Pop inclusivo e sostenibile”

Laureata in Scienze dell'educazione, passata anche ad Harvard, la fondatrice dell'etichetta discografica indipendente Singing Beetle spiega quali sono gli strumenti da mettere in campo - compresi formatori, psicologi, coach, persino sacerdoti - per combattere uno dei mali oscuri del paese: i suicidi tra i giovani artisti. "Il primo pilastro è la salute mentale e il secondo la cittadinanza globale, qui celebriamo le differenze". L'intervista con THR Roma

Singing Beetle, cicala canterina. Nella favola di Esopo della cicala e della formica, la prima è una pigra perdigiorno che pensa solo a cantare, la seconda è una diligente lavoratrice. Quando arriva l’inverno, la formica ha un granaio pieno e la cicala no. Morale: “Lavora duro come la formica”. Michelle Cho, fondatrice in Corea del Sud della casa discografica Singing Beetle, parte da qui per raccontare a THR Roma come sta cercando di lasciare il segno nell’universo del K-Pop. “La cicala non sta solo oziando piuttosto il suo canto rende migliore il lavoro della formica”.

Con questa versione un po’ più alla Gianni Rodari, Cho ha costruito un’etichetta indipendente che “valorizza il lavoro artistico portatore di gioia, speranza, conforto alle persone attraverso la musica” ma ancora prima “un luogo di inclusione e sostenibilità, dove molta attenzione è sulla salute mentale degli artisti”.

Il team di SInging Beetle

Il team di Singing Beetle

Il lato oscuro e suicida del K-Pop

Non è un caso che tra le prime parole che pronuncia Cho ci sia il riferimento al benessere psicologico delle persone. La Corea è un paese dinamico la cui reputazione mondiale è molto positiva. Da colosso del K-Pop e dell’industria cinematografica a trendsetter per i prodotti di bellezza. Sotto il luccichio delle esibizioni K-Pop però, come dietro al successo di alti funzionari politici e diplomatici, il paese ha uno dei tassi più alti di suicidio nel mondo.

Nel 2021 erano 26 ogni 100.000 persone, cifra più alta tra i paesi OCSE. Il suicidio è stata la principale causa di morte per le persone di età compresa tra i 10 e i 39 anni e al suicidio è stato attribuito il 44% delle morti tra gli adolescenti e il 56,8% di quelle tra i ventenni. Principale causa di suicidio è la salute mentale.

A saperlo meglio di tutti sono proprio gli idol del K-Pop. Conoscono bene la corsa per arrivare in alto, facendo fuori ostacoli umani e non umani, annaspando tra file di giovani in feroce competizione. La pressione per raggiungere l’obiettivo, con l’industria che pretende ore e ore di allenamento senza sosta, diete drastiche e a volte anche interventi di chirurgia estetica per rientrare in standard prestabiliti. Il lato oscuro delle loro canzoni allegre è testimoniato dalle tanti morti per mano propria degli idoli del K-Pop, mangiati da un sistema che li vuole perfetti. Ahn So-jin, Kim Jong-hyun, Sulli, Goo Ha-ra, Yuko Takeuchi, Oh In-hye, Moonbin. Un elenco che si allunga di anno in anno.

“Il K-Pop ha molto potenziale per crescere, adesso abbiamo l’attenzione del mondo”, spiega Cho. “Ma abbiamo il dovere di pensare ai problemi di salute mentale delle persone coinvolte”. Primo passo: creare comunità. “Sosteniamo e proteggiamo gli artisti, non devono sentirsi soli”. Attorno ai cantanti di Singing Beetle infatti c’è una cerchia di persone che non ha a che fare solo con la musica. “Formatori, psicologi, coach, mentori, anche pastori della chiesa se qualcuno volesse”, dice lei, “questa rete serve perché sappiano che se sono in crisi c’è sempre qualcuno con cui parlare, con cui combattere”.

Geum Seok

Seok, cantante in Singing beetle

Se necessario, “forniamo anche cure mediche per la salute mentale, per assicurarci che abbiano ambizioni sane e una buona etica del lavoro”. Il punto è trasmettere agli artisti che gli obiettivi si raggiungono “senza comportamenti distruttivi per loro stessi e per le persone che li circondano”.

Dall’Uganda alla Corea, passando per Harvard

Michelle Cho ha sempre sognato di lavorare con la musica, “credevo però che ci volesse molto talento e io non lo sentivo”. All’università in Corea si è laureata in Scienze dell’educazione. “Andai in Uganda per un progetto di educazione digitale”, racconta parlando degli anni di studi. “Donavamo i computer usati e insegnavamo come usarli”. Dato che non si studia tutto il tempo, “mettevamo musica di sottofondo per socializzare ed è come se mi si fosse accesa una lampadina”. Era il 2009, le canzoni Gee delle Girls Generation e Ring Ding Dong degli Shinee erano appena esplose, ricorda Cho. “Non parlavamo la stessa lingua ma quel ritmo era comprensibile per tutti: Corea e Uganda, due parti del mondo molto diverse che stavano cantando insieme”.

Cho ha proseguito con la sua formazione in educazione facendo un master all’Università di Harvard. “Ma non riuscivo a smettere di pensare che la musica può essere di più di semplice musica”. E così, prendendo coraggio: “Mamma, papà, voglio tornare in Corea, un anno e vedo come va”. I genitori, che lei con un sorriso definisce “molto asiatici”, all’inizio volevano per lei un altro percorso di carriera ma oggi la sostengono. “Ho risposto a un annuncio di lavoro per una posizione nella SM Entertainment per A&R, la divisione di un’etichetta discografica responsabile della scoperta di nuovi artisti. Ho ottenuto il lavoro. Ed è arrivato il K-Pop”.

Singing Beetle: un K-Pop “sano e inclusivo”

Poco tempo e Cho vede le difficoltà del sistema dall’interno. “Non tutti i musicisti, così come gli attori, di talento hanno accesso a una rete per portare avanti la propria carriera. Alcuni sono costretti a rinunciarci. Dovevo creare qualcosa che fosse un ponte tra gli artisti emergenti e quelli più affermati, dovevo aiutarli cono la loro formazione per farli decollare”. In altre parole: “Volevo un K-Pop inclusivo”.

Prima pratica inclusiva di Singing Beetle è non guardare il background degli artisti. Tra gli artisti già affermati con cui Cho lavora compaiono Kai e Baekhyun degli Exo, popolare boy band, i Wanna One e le Pristin. Tra gli ultimi scritturati ci sono gli SB Boyz, due ragazzi scappati dalla Corea del Nord in cerca dei loro prossimi compagni. “Il fatto che venissero dalla Corea del Nord non è stato un problema, semplicemente significava che non gli era stato dato abbastanza, o meglio le opportunità, le possibilità per la loro formazione”.

Yu Hyuk

Yu Hyuk, membro SB Boyz

Quindi primo comandamento è quello che Cho chiama cittadinanza globale. “Abbiamo lavorato anche con alcuni cantautori emergenti, provenienti da altre parti del mondo, che volevano entrare nella scena K-pop, non essendo coreani”. Essere cittadini globali significa che “chi lavora qui è consapevole e sensibile alle differenze culturali, religiose, razziali, sessuali, a tutte le singolarità, creando un ambiente in cui tutti si sentano al sicuro di esprimersi”.

Ultimo comandamento: non adattarsi a un sistema. “A nessuno viene detto che la diversità e l’identità vanno celebrate, ci viene detto di adattarci a delle regole, da sempre. Quello che stiamo cercando di fare è non costringere le persone in delle etichette rigide”. Che nel K-Pop sono “classificazioni coreane”. Eppure già oggi “mi sembra che non solo i coreani siano coinvolti nella produzione del K-Pop, ma che ci siano produttori e autori di canzoni, coreografi e registi di video musicali provenienti da tutto il mondo, dalla Scandinavia, dall’America, dal Giappone, da tutte le parti del mondo”.

In tutte le parti del mondo, così ci saluta Cho, “si sogna e si provano gli stessi sentimenti, gli stessi bisogni di speranza e conforto”.

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