Buon compleanno Keith Richards & Brad Pitt: aveva ragione Albert Einstein, il tempo è un’illusione

Il chitarrista dei Rolling Stones oggi compie 80 anni e l'attore più amato di tutti sempre ne fa 60: in ambedue i casi è un cortocircuito di ogni possibile timeline, sia l'uno che l'altro sembrano sovvertire le leggi dell'universo. Il rocker incarna la sfida per eccellenza alla morte, il divo del cinema pare l'eterno Dorian Gray. Lo dimostrano le canzoni, lo dimostrano i loro film

Che è il tempo sia un’illusione lo diceva anche Albert Einstein. Per Platone, invece, il tempo è “l’immagine mobile dell’eternità”. Le loro parole pesano come macigni nella storia del pensiero, ma se avete comunque bisogno di una prova, sappiate che ce ne sono almeno due, in carne ed ossa, ambedue offerte dal multiverso dello show business: la prima risponde al nome di Keith Richards, la seconda a quello di Brad Pitt. Sì, il chitarrista dei Rolling Stones celebre non solo per aver creato alcuni dei riff più importanti della storia (Satisfaction e Jumping Jack Flash su tutte), ma anche per aver dichiarato d’aver sniffato le ceneri del padre. Sì, la superstar di Babylon e di Bastardi senza gloria, grandissimo attore ma anche uomo tra i più desiderati del globo terracqueo. Ecco, per una coincidenza folle i due sono nati lo stesso giorno: 18 dicembre. Benché a vent’anni di distanza l’uno dall’altro.

Ebbene sì: il dinosauro Keith Richards da oggi ha 80 anni, Brad Pitt ne compie 60. In fondo le due notizie sono una sola: in tutt’e due i casi è un cortocircuito del tempo, sia Keith che Brad sembrano incarnare un sovvertimento delle leggi dell’universo. Il primo dovrebbe essere cittadino dell’aldilà da anni, stando alle droghe che si è preso nei lontani decenni della tempesta perfetta del rock’n’roll e alla vita selvaggia impugnata come un ghigno rivolto al diavolo  (“i medici che mi hanno detto di smettere per non morire sono tutti morti” è una delle sue battute più famose), il secondo è una sorta di Dorian Gray dell’epoca moderna, a cui è impossibile a tutt’oggi affibbiare l’etichetta “terza età”. Sembra ieri quando il ventottenne dai muscoli scolpiti di Thelma & Louise faceva rabbrividire le platee cinematografiche di tutto il mondo.

Ronnie Wood, Mick Jagger e Keith Richards dei Rolling Stones in concerto al Nissan Stadium a Nashville (ottobre 2021)

Ronnie Wood, Mick Jagger e Keith Richards dei Rolling Stones in concerto al Nissan Stadium a Nashville (ottobre 2021)

Altro che multiverse of madness: la realtà è più forte di qualsiasi immaginazione. Sembra quasi un marchio del nostro tempo, quello di prendersi beffe del tempo che corre: quando Brad Pitt emetteva i suoi primi vagiti, nel 1963, i Rolling Stones già calcavano i palchi con il loro ruvido blues. E oggi sono ancora al centro della scena: l’album Hackney Diamonds (il primo di inediti dal 2005)  è uscito da una manciata di settimane, un nuovo tour è annunciato per aprile negli Usa, nonostante la dipartita del batterista Charlie Watts, tre anni fa, il primo a farci capire che sì, in effetti anche i Rolling Stones sono mortali. In questo continuo intrecciarsi tra passato e presente (eterno), con i vivi che suonano con i morti, sembra una roba degna degli Avengers il fatto che in questo disco numero ventinove della loro carriera siano presenti anche i due Beatles superstiti, Paul McCartney e Ringo Starr.

I quali sono protagonisti di un’altra danza dei vivi con i morti, ossia la meravigliosa Now and Then, la “vera ultima canzone” dei Fab Four, registrata in quattro decenni, prima il nastro realizzato da John Lennon con sopra scritto “per Paul” nel ’77, poi il primo tentativo di finirla nel 1994 insieme a George Harrison, infine la versione finale del 2023, con Paul e Ringo a completare il sogno, a chiudere il cerchio.

All’interno di questo frullato spazio-temporale senza precedenti, Keith Richards occupa uno spazio speciale, tutto suo.

Nel 2006, nel primo tour dopo la celebre quanto mitologica caduta che per un pelo non gli costò il trasferimento anzitempo presso l’Altissimo, si presentò sul palco con una fascia in testa e mormorando “God, it’s incredible”: quel che era incredibile era che lui fosse ancora lì, in scena, con in braccio la sua Telecaster e che ci fossero ancora decine di migliaia di persone ad ogni esibizione degli Stones. Nel 2007 Keith interpretò il ruolo del capitano Edward Teague, padre del pirata Jack Sparrow nel film Pirati dei Caraibi – Ai confini del mondo: il medesimo Depp rivelò che si era ispirato a Keef (è il soprannome di Richards) per il personaggio di Sparrow, bandana, trucco e fasce alle braccia comprese. Nel 2008, nel film-concerto Shine a Light, diretto da Martin Scorsese, la macchina da presa si muoveva sul palco, in mezzo a Mick & co: ad un certo punto, Keith s’inginocchiò, ansimando, quasi appoggiato alla sua chitarra. Aveva l’aria di uno che sta per morire, esausto.

E invece è ancora qui, ancora avanza sul palco, oggi e ogni volta ancora il volume si alza quando attacca il riff di Start Me Up o di Can’t You Hear Me Knocking (quest’ultima utilizzata in mille film, by the way). Lui che si lamenta dell’artrosi che gli ha letteralmente deformato le mani: nonostante ciò suona imperterrito il suo blues e ripete che continuerà a farlo finché non sarà finito sottoterra. Lui che nella bellissima autobiografia Life racconta senza veli il suo passato da tossico praticamente all’ultimo stadio, ripete spesso una delle sue battute preferite accompagnata ad una foto di anziane signore inglesi: “Vedete come ci si riduce a passare la vita a bere il thè?”.

Infine, è non a caso che in questi giorni circoli sui social media un’immagine medievale raffigurante un uomo intento a suonare uno strumento a corde con una didascalia che dice “la più antica immagine conosciuta di Keith Richards: anno domini 1140”.

Brad Pitt e Mike Moh in una scena di C'era una volta a... Hollywood di Quentin Tarantino

Brad Pitt e Mike Moh in una scena di C’era una volta a… Hollywood di Quentin Tarantino

Poi c’è Brad. Quello di Ocean’s Eleven e compagnia bella, quello del tormentato matrimonio con Angelina Jolie e dei loro sei figli, quello del castello in Francia e della magione da 40 milioni di dollari a Carmel in California, ma anche e soprattutto il tipo schizzato di L’esercito delle 12 scimmie di Terry Gilliam (1995), oppure il Tyler Durden di Fight Club (1999),  che oltre a produrre sapone e fare il cameriere è anche un proiezionista, e in quanto tale infila fotogrammi pornografici subliminali nelle proiezioni per famiglie.

In questi giorni tutti citano Il curioso caso di Benjamin Button (2008), anche questo di David Fincher, dove si narra di un tale che nasce vecchio e invecchiando ringiovanisce, ma a noi piace soprattutto nelle sue estensioni tarantiniane, ossia il tenente Aldo Raine, l’ammazzanazisti ebreo di Inglorious Basterds (2009) e lo stuntman Cliff Booth in C’era una volta a… Hollywood (2019): lievemente incartapecorito ma fascinoso come non mai, un classico ambulante senza età, forse l’ultimo vero divo della Mecca del cinema. Come fotografato alla perfezione da Damien Chazelle con il divo vintage di Jack Conrad in Babylon (2022).

Ognuna di queste pellicole è un balletto beffardo con il tempo e la storia, come lo è l’apparente sempiternità degli ottantenni Keith & Mick che poco meno di sessant’anni fa cantavano Time is on My Side e che ancora oggi sfidano le fiamme dell’inferno. Ben sapendo che il tempo è un’illusione, come sussurravano quelle vecchie volpi di Einstein e Platone.