The Beatles, la macchina del tempo si è fermata: la loro nuova canzone è l’ultimo addio (di un sogno)

Alla fine eccolo Now and Then, il nuovo singolo dei Fab Four: un vecchio pezzo di John, completato da Paul e Ringo (e da un George postumo). L'alchimia ha funzionato: c'è il miracolo delle loro voci, la malia degli archi, le timeline parallele della creatività. Ma è anche un pezzo tristissimo, il loro struggente testamento, il vero capitolo conclusivo di un miracolo

Oggi, 3 novembre 1967. Ultimo giorno di riprese di Magical Mystery Tour, il bizzarro film psichedelico, capolavoro di nonsenso, che andò in onda sulla Bbc il 26 dicembre di quello stesso anno. Sarà il maggiore, forse l’unico, insuccesso dei Fab Four: gli spettatori britannici non gradirono affatto. Troppo bizzarro, troppo sgangherato, troppo “sperimentale”. Diversamente dal disco, che appartiene di diritto al Gotha assoluto della creatività beatlesiana. La scena che si girò è quella di Blue Jay Way, oscuro e malioso pezzo di George Harrison. Il mondo era un altro, i Beatles con I Am the Walrus consegnarono all’umanità una sinfonia lisergica e paradossale delle anime in cerca di nuovi universi. Era un viaggio di scoperta, era un mondo che continuava da aprirsi ad una velocità che lasciava senza respiro. Era la rivoluzione dei suoni e dei cuori.

Oggi, 3 novembre 2023. È il day after dell’uscita dell’ultima vera canzone dei Beatles, Now and Then. Ma è anche il giorno del lutto: perché questo pezzo – che John Lennon affidò nel 1977 ad un’audiocassetta e che Paul McCartney e Ringo Starr hanno completato nel 2023, sulla base di una precedente registrazione del 1994 insieme a George Harrison – è il vero testamento dei Beatles. A 43 anni dalla morte di John e a 22 anni dall’addio a George. È la fine. Lo dicono loro stessi, “la vera ultima canzone dei Beatles“.

I Beatles sul set di Magical Mystery Tour nella scena di I Am the Walrus (settembre 1967)

I Beatles sul set di Magical Mystery Tour nella scena di I Am the Walrus (settembre 1967)

Proprio così: è un brano che legittimamente si può considerare una creazione di tutti e quattro i Beatles, nonostante l’intervento dell’IA (ossia di uno strumento di machine learning perfezionato per il film Get Back di Peter Jackson, che ha permesso di isolare la voce di John e riprodurla perfettamente, superando l’ostacolo di una registrazione originaria considerata impubblicabile per decenni), nonostante la distopia dei corpi (dato che due di loro sono non più di questo mondo ed in considerazione di tracce suonate a decine di anni di distanza).

“Un miracolo!”, gridano oggi tutti i giornali. Sì. Eppure è come se l’incredibile macchina del tempo dei Fab Four si fosse infine fermata: il gioco al cardiopalma delle timeline incrociate che hanno prolungato il sogno per mezzo secolo è arrivato alla casella the end. E Paul e Ringo ne sono assolutamente consapevoli: non a caso nel formato del singolo Now and Then viene accoppiata a Love Me Do, la prima canzone mai pubblicata dai Beatles (nel sideralmente lontano 1962), come a chiudere definitamente un cerchio. E sì, è vero che l’incredibile alchimia artistica e personale della cabala John, Paul, George & Ringo appare intatta: è un pezzo di John – non c’è IA che possa inventare la malia e la dolcezza della voce di John – arrangiato da Paul e suonato da John, Paul, George e Ringo. McCartney oggi, nel 2023, ha risuonato la sua parte di basso, Ringo ha suonato la batteria, l’intreccio armonico delle voci dei quattro ha effettivamente del miracoloso, alla console c’è Giles Martin, figlio di cotanto George Martin, il produttore delle meraviglie al servizio di quattro geni. E ci sono gli archi, come in Strawberry Fields, come in Eleanor Rigby, come in Good Night, come in She’s Leaving Home.

Oggi come allora: i ruoli sono rispettati, specie nel rapporto tra John e Paul. Il primo è il dolente poeta disposto a denudare anche crudelmente il proprio cuore, il secondo è l’orchestratore delle anime, il regista della Wunderkammer – la stanza delle meraviglie – beatlesiana. Proprio come accadde per A Day in the Life, la più sconvolgente chiusura immaginabile per una delle opere d’ingegno più rivoluzionarie di sempre, ossia Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.

I Beatles in Get Back di Peter Jackson

I Beatles in un momento di Get Back di Peter Jackson

Tutto torna, come nelle favole. Non fosse per il fatto che Now and Then è diversa da tutte le altre canzoni dei Beatles. Checché ne dicano oggi i giornali, la pubblicistica di mezzo mondo, l’universo intero. Perché è una canzone di una tristezza infinita. Una tristezza con la morte nel cuore. I Beatles di allora non conoscevano questo tipo di tristezza: erano alla scoperta di nuovi mondi anche quando cantavano l’aldilà (Strawberry Fields Forever), erano speranza anche quando cantavano il senso di perdita per una persona cara (Let It Be), erano il trionfo dell’amore anche quando dicevano addio (“and in the End the love you take is equal to the love you make” è l’ultimo verso dell’ultima canzone registrata contemporaneamente da tutti quattro i Beatles, al termine di Abbey Road). Quella dei Beatles era una musica che si apriva, che apriva squarci di futuro, scintille di creazione, orizzonti di gioia. Sempre.

Un’equazione che ha funzionato anche per Free as a Bird e Real Love, gli altri due pezzi parzialmente postumi realizzati a firma Beatles: era il 1994, l’occasione era l’uscita dei vari capitoli dell’Anthology, operazione numero uno della colossale opera di mantenimento in vita e conservazione del patrimonio musicale, culturale e sociale che porta il loro nome, portato avanti fino ad oggi tra ristampe, riscoperte di gemme nascoste, rarità, film. Anche Free as a Bird e Real Love erano pezzi di Lennon arrivati via Yoko Ono su antichi nastri, anche lì c’erano Paul, Ringo e George a completare l’opera. Ma, appunto, era un volo, metafora calzante dell’avventura beatlesiana, anche lì con un tocco di nostalgia appena baciata da un’anima psichedelica.

Oggi, adesso, c’è Now and Then, ed è una struggente ammissione di melanconia e nostalgia, che l’arrangiamento dolente di McCartney sottolinea in ogni nota. Laddove allora (Then) la loro musica era seducente e allegra rivoluzione, adesso (Now) è un gioco d’equilibrio tra evocazione di un sogno e illusione di conservazione (di una nostalgia). È lo sguardo di persone che hanno infinite stagioni alle spalle (Paul e Ringo), che guardano indietro con rimpianto, che sognano un passato che non tornerà: Now and then / I miss you / Oh, now and then / I want you to be there for me, cantano i quattro superando le barriere dei tempi e dei corpi (“Ora e allora, mi manchi / ora ed allora / Io voglio che tu sia lì per me”). So che non resterai mai, aggiunge – quasi li corregge – John, dall’oltretomba.

È come Insterstellar, il film di Christopher Nolan: il passato ed il presente che si fondono, due signori senza età (Paul e Ringo), che cantano e suonano con due persone che non hanno avuto la fortuna di poter invecchiare (John e George) – il primo ucciso da cinque sudici colpi di pistola davanti a casa sua, il Dakota Building di New York, da un nowhere man che aveva smarrito il senso, l’altro terminato da una malattia senza pietà e con le ceneri sparse nel Gange -l’adesso e l’oggi che si intrecciano nel definitivo, doloroso, addio di un sogno che per mezzo secolo era riuscito ad ingannare il tempo, la vita e la morte. Ebbene sì, il Magical Mystery Tour è arrivato alla fine.