Cent’anni dopo Franz Kafka è ovunque e da nessuna parte: ed ecco perché è un gigante del cinema (vedere alla voce labirinto)

Dal Processo espressionista di Orson Welles alla commovente Intervista di Federico Fellini, passando dalla trasognata simil-Praga di Woody Allen e persino dalla Marvel di Loki: un viaggio tra le ispirazioni, le suggestioni, le visioni dell'immenso scrittore praghese, morto il 3 giugno 1924. Che persino come personaggio di un altro libro, di Philip Roth, ha una potenza degna di un grande film

Ovvio: Kafka è ovunque e da nessuna parte. Kafka è uno stato d’animo, è un mosaico delle viscere del mondo, che trovi in ogni labirinto. Persino nelle aggrovigliatissime timeline di una serie Marvel come Loki, dominata dal senso del perdersi in un crocevia multiplo del tempo del quale è incomprensibile lo scopo, esattamente come nelle opere dell’immenso, assoluto, scrittore praghese. Se ne parliamo adesso è perché il 3 giugno 2024 cadono i cento anni dalla sua morte: cent’anni, eppure Kafka è straordinariamente presente, come il Don Chisciotte di Cervantes, forse più di quanto lo sia Thomas Mann, certamente gioca nello stesso campionato di Tolstoj e Dostoevskji. E come succede appunto ad un autore immenso come le piramidi, il cinema ama il praghese ma lo teme, gli gira intorno, lo cita a profusione, ci gioca, se ne nutre ma ha immense difficoltà a trascinarlo sullo schermo.

Tom Hiddleston nella seconda stagione di Loki

Tom Hiddleston nella seconda stagione di Loki

Il che è, ovviamente, un paradosso. Perché Kafka è cinema, è visione, è (anche) formidabile racconto per immagini: i vicoli che portano (e allontanano) il personaggio di K. al e dal Castello, ovviamente l’enorme insetto in cui Gregor Samsa si trasforma senza motivo apparente nella Metamoforsi, la descrizione del tribunale distopico ne Il processo, giusto per fare tre esempi grondanti iconicità.

Certo, lo scrittore divenuto aggettivo (“kafkiano”) per forza di cose è divenuto anche stereotipo, nondimeno la potenza delle sue immagini si impone pure sul più pervicace dei riflessi condizionati: il racconto del labirinto della burocrazia o della legge quando diventa sopruso indecifrabile, il bianco e nero di come ci immaginiamo la Praga di Kafka (bianco e nero come le foto che ritraggono lui così triste, con il colletto rigido della camicia e la bombetta in testa, oppure con la pettinatura così ordinata, evidente sintomo di fragilità e paura), il grigiore dei funzionari portatori di regole insensate assurte a condizione di vita universale, tutto questo è penetrato in profondità nel cinema, in televisione, nel racconto popolare ben oltre i titoli che sono esplicitamente tratti da Kafka o ispirati a Kafka.

Insomma, è una danza, un balletto, il rapporto della settima arte con Kafka. Pochissimi i titoli in cui Kafka viene preso di petto. Uno su tutti, il più coraggioso e clamoroso, è ovviamente Il processo (The Trial) di Orson Welles, 1962. Film sfortunato all’epoca: molti l’hanno considerato un passo falso da parte del regista di Quarto Potere, altri hanno criticato con veemenza la scelta di Anthony Perkins nei panni di Josef K., persino il riverente e amato Peter Bogdanovich, parlando con Welles, confessa di non amare questo lavoro, diversi critici rimproverarono “la fedele infedeltà” al romanzo (scritto tra il 1914 e il 1915 ma pubblicato nel 1925).

Anthony Perkins in una scena de Il processo di Orson Welles (1962)

Anthony Perkins in una scena de Il processo di Orson Welles (1962)

“Potete dire quello che volete, ma Il processo è il miglior film che abbia mai fatto”, replicò Orson nel 1965, parlando con i Cahiers du cinéma.

A dimostrazione di quale potentissimo magnete Welles fosse all’epoca per gli attori europei (mentre Hollywood lo snobbava), Il processo vantava un cast pazzesco (oltre a Perkins e lo stesso Welles, c’erano Romy Schneider, Jeanne Moreau, Elsa Martinelli, Arnoldo Foà e il fedelissimo Akim Tamiroff). Ma c’è anche da dire che Welles non è mai stato un regista facile, mai favorito dall’unanimità dei giudizi (figuriamoci quando un suo film è la narrazione di un incubo, come in questo caso): e tuttavia oggi il virtuosismo del Processo, il suo bianco e nero quasi espressionista, le deformazioni delle immagini per dare il senso della minaccia latente e onnipresente ottenute portando il grandangolo all’estremo delle sue forze, la città fredda e di vetro che sembra figlia della Metropolis di Fritz Lang, i giudici della corte suprema senza volto, ecco, tutte queste folgorazioni e scelte visionarie si sono imposte su tutte le critiche, sono oramai paradigmatiche come il resto del grande cinema del genio di Citizen Kane.

L'ultima foto conosciuta di Franz Kafka

L’ultima foto conosciuta di Franz Kafka

Forse era destino che Welles ad un certo punto affrontasse Kafka, dato che suggestioni d’immaginario kafkiano in un modo o nell’altro sono apparse prima e anche dopo questo film: la scena degli specchi nella Signora di Shanghai, certo, ma c’è una parentela anche con Rapporto confidenziale e il postumo The Other Side of the Wind: tutt’e tre le opere “presentano mondi labirintici, fratturati, fantasmagoricamente soggettivi”, come ha scritto nel 2023 Jonathan Lethem. “Nonostante la pletora di porte e passaggi che si possono attraversare – abbastanza facilmente, nonostante l’ammonimento dei guardiani delle porte – non è possibile alcuna uscita”, aggiunge lo scrittore americano, “poiché l’interno e l’esterno, il prigioniero e il guardiano, sono la stessa cosa”. Lo sono per Welles, lo sono per Kafka.

Com’è come non è, è anche per le vie del grande Orson che Il processo (anzi, Kafka) giunge ad altri manufatti del cinema: ovviamente Brazil di Terry Gilliam (1985), con la distopia cinica e claustrofobica di una burocrazia spietata al potere, ma anche Ombre e nebbia di Woody Allen (1991), immerso nelle brume di una città mitteleuropea (sì, in bianco e nero) che ovviamente ricorda la Praga di Kafka, anche se poi la veste delle suggestioni dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht (meravigliosa musica di Kurt Weill compresa). Woody lo disse apertamente: il suo film è tratto da una pièce teatrale da lui scritta negli anni settanta (intitolata significativamente Morte), in qualche modo una parodia di K., diceva Woody.

Last but not least, forse nel catalogo dei film kafkiana deve trovare un posto anche Fuori orario (1985), viaggio delirante di Martin Scorsese in una New York da incubo parossistico (non a caso inserita dal festival di Karlovy Vary in una retrospettiva dedicata appunto ai film di ambientazione labirintica di Josef K. e compari).

Woody Allen e Kenneth Mars Una scena di Ombre e nebbia (1991), in parte ispirato alle opere di Franz Kafka

Woody Allen e Kenneth Mars Una scena di Ombre e nebbia (1991), in parte ispirato alle opere di Franz Kafka

Forse l’esempio più celebre e commovente della trasfigurazione kafkiana sullo schermo è Intervista di Federico Fellini (1987), che ci mostra lo stesso regista di Otto e mezzo alle prese con un film tratto da America (che quasi diventa una resa dei conti tra due aggettivi: appunto “kafkiano” vs “felliniano”) mentre, intervistato da giornalisti stranieri, coglie l’occasione per eviscerare reminiscenze personali. Ma poi ci sono anche Das Schloss di Michael Haneke (1997), realizzato per la televisione austriaca, il thriller Hans (2006), diretto da Louis Nero ed ispirato a La metamorfosi, oppure il bizzarro Delitti e segreti di Steven Soderbergh (1991), con nientemeno che Jeremy Irons nei panni di Kafka, una specie di esercizio di stile intorno alla vita e i principali romanzi dello scrittore boemo, ossia una specie di piccola Odissea del medesimo Kafka attraverso i suoi stessi libri, in primis Il castello e Il processo.

Infine, i molti titoli che utilizzano Kafka come metafora per raccontare le proprie brutture: uno su tutti, Kafka a Teheran (2023), in cui Ali Asgari e Alireza Khatami narrano attraverso vari episodi l’insensatezza di un sistema che controlla, sanziona, regola la vita quotidiana degli iraniani. Kafka come metafora del potere presente: efficace in Occidente e in Oriente.

Jeremy Irons in una scena di Delitti e segreti, di Steven Soderbergh (1991)

Jeremy Irons in una scena di Delitti e segreti, di Steven Soderbergh (1991)

Ora, sorvoliamo sulle svariate opere liriche, i musical, i racconti satirici, finanche le sculture e i fumetti ispirati a Kafka oppure al suo mondo (una nuova serie televisiva, Kafka, con Liv-Lisa Fries è appena passata sul primo canale pubblico tedesco), e a parte una manciata di canzoni rock (The Colony dei Joy Division, At Night e A Letter to Elise dei Cure, poi Bloom dei Radiohead (Thom Yorke e compari sono stati definiti da nientemeno che Brad Pitt “il Kafka e il Beckett della nostra generazione”), ma cosa ci dice quest’onnipresenza pure un po’ nascosta del piccolo gigante praghese di lingua tedesca, ignoto ai più quando era in vita?

Forse che mai come nel caso di Kafka la vita e la letteratura (e per estensione il cinema) sono la stessa cosa, un luogo dell’anima nel quale l’eroicità del protagonista è nella forza delle sue visioni ma soprattutto nella potenza delle sue paure, della sua fragilità, la forza delle immagini che raccontano l’assurdità agghiacciante del potere.

E la prova definitiva di quanto sia “cinematografico” Franz Kafka ce la consegna non un regista, ma un altro fenomenale scrittore: in un minuscolo libriccino del 1973, “Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno”. Ovvero, guardando Kafka, Philip Roth immagina un Kafka sopravvissuto alla tubercolosi ma anche all’Olocausto (nella quale trovarono la morte, invece, le sue sorelle). Un Kafka che riesce a fuggire in America (America!), dove trova un posto da insegnante in una comunità ebraica, ovviamente nel New Jersey. E dove lo stesso Philip Roth ragazzino invita il dottor Kafka a casa sua per una cena il cui intento è presentarlo alla zia Rhoda, zitella, nonostante i suoi modi da Vecchio Mondo (“Io innamorata di Kafka? A un vecchio come quello non rivolgo nemmeno la parola!”). Pochissime pagine, ma che meraviglioso film.