Stanley Kubrick è ovunque. Dall’osso mutato in arma da un scimmia che si trasforma in un’astronave fluttuante nello spazio all’espressione psicotica di Jack Nicholson in Shining, passando dalla truppa che canta la Marcia di Topolino avanzando tra le rovine del Vietnam in Full Metal Jacket e dai quadri in movimento illuminati a luce di candela in Barry Lyndon, il cinema del più grande di tutti i cineasti è ovunque. Pochi registi come lui hanno penetrato con tale pervasività l’immaginario collettivo, ben oltre lo stretto ambito della settima arte. È qualcosa che nel corso della storia della civiltà umana è riuscito, in quest’estensione, a pochissimi: forse Leonardo, Mozart, Shakespeare, Beatles, chissà.
Anzi. A venticinque anni dalla morte (7 marzo 1999) la sua potenza imaginifica è ancora sconvolgente: potete imbattervi in svariate puntate dei Simpson in cui si trasfigurano intere sequenze di Arancia meccanica (citata anche nel video di Seven Nation Army dei White Stripes), l’immagine delle gemelline di Shining (derivate da Diane Arbus, come scrive qui anche Manuela Santacatterina) ha influenzato generazioni di filmaker, quasi ogni film che si svolge nelle brume del Settecento (dai Duellanti di Ridley Scott in poi) è chiaramente debitore delle avventure di Barry Lyndon, ogni volta che vedete un ufficiale insultare i suoi soldati con pesantissimi epiteti il pensiero corre al sergente Hartman di Full Metal Jacket, impossibile pensare ad una crisi nucleare, ad una war room e alla bomba senza aver dinnanzi agli occhi il braccio teso di Peter Sellers oppure il maggiore “King Kong” che cavalca l’atomica in Dottor Stranamore sventolando il cappello come un cowboy.
Vale per quasi tutti i suoi film. Gli occhiali di Lolita, le montagne di cadaveri che emergono dal buio della notte in Orizzonti di gloria, il ciglio finto e la “cura Ludovico” di Arancia meccanica, la maschera stile veneziano in Eyes Wide Shut, il monolite di 2001 Odissea nello spazio, il ghigno satanico di Vincent D’Onofrio nei panni di Panna di Lardo in Full Metal Jacket, che “parla” con gli analoghi ghigni di Jack Nicholson in Shining e di Malcolm McDowell in A Clockwork Orange.
Immagini, scene, momenti, sequenze che si sono fissate nella consapevolezza di sé del nostro mondo, della nostra epoca, nel cinema e al di là del cinema. Vale anche per i temi. L’ultra-violenza. L’intelligenza artificiale. L’idiozia della guerra. La bomba atomica. L’amore proibito per un’adolescente. Il futuro e lo spazio. Ne parli e subito arrivano gli scorci, le immagini dei film di Stanley Kubrick (sempre snobbato agli Oscar, by the way).
Tredici film. Cabala numerica a parte, sono pochissimi, da Paura e desiderio del 1953 ad Eyes Wide Shut del 1999. Ma ciascuno di questi film è una cattedrale (e una rivoluzione). Stanley il perfezionista, il solitario, l’ex fotografo di Look, il montatore, lo sceneggiatore, il produttore, il “cineasta totale” che metteva una cura maniacale in ogni progetto, costruendo in una manciata di pellicole un’infinità di orizzonti cinematografici. Molte volte aprendo la strada, da ciascun film, a nuovi generi, ridefinendoli, rendendosi ogni volta imprescindibile a chiunque volesse realizzare sulla sua scia. Ma soprattutto, aprendo il varco a questioni fondanti della vita umana.
Prendete l’occhio di Hal 9000, il computer di bordo dell’astronave Discovery che si rivolta contro gli umani cercando di prendere il potere: quell’immagine è l’alfaeomega della discussione sull’intelligenza artificiale come la conosciamo anche ai nostri giorni, 55 anni dopo l’uscita di 2001 Odissea nello spazio, compresa filastrocca finale al rallentatore. (E sarà un caso, ma sulla Discovery della penultima serie targata Star Trek, di nuovo un computer di bordo diventa senziente). Ma non solo è un film che ha sconvolto chi lo vide allora per la prima volta (leggendari i racconti di chi lo consumava imbottito di droghe lisergiche), 2001 è anche il modello di buona parte della fantascienza filmica a seguire, a cominciare dalle prime scene del primo Star Wars, che è di nove anni più giovane.
Però 2001 è anche “di più” rispetto alla science fiction venuta dopo: perché nessuno ha avuto la forza e il coraggio di affrontare nello stesso scorrere delle immagini l’origine e la fine della vita, il mistero dell’universo e persino l’origine della fede. Ebbe a dire Denis Villeneuve, attualmente campione mondiale di cinema fantascientifico con Dune 2: “Io ancora non comprendo certe immagini di 2001 Odissea nello spazio. Ci sono pezzi con cui lotto per cercare di capirne il vero significato. Capisco però che comprendo differenti significati via via che cresco. È questo il potere del cinema”.
Per dire del continuo flusso di suggestioni tra Kubrick e le altre arti: prendete All Along the Watchtower di Bob Dylan, ancora di più nella sua versione elettrica e voodoo di Jimi Hendrix, una canzone gonfia di oscuri presagi, come spesso capita al cantore di Duluth. Niente di quella canzone (datata 1968) dice del Vietnam, ma ribolle di Vietnam in ogni suo respiro. C’è il clima di tensione, l’attesa del cielo che cadrà sulla terra, ci sono il ladro, la torre di guardia, i principi e i due cavalieri, che, come in Isaia 21, 1-12, paiono essere figuranti di uno scenario apocalittico. “La vita non è che uno scherzo” (joke in inglese), dice il ladro al Joker, il giullare, il giocoliere. Sarà una coincidenza (no, non lo è), ma a noi piace immaginare che sia questo il Joker (interpretato da Matthew Modine) che ci conduce per mano negli abissi del Vietnam in Full Metal Jacket.
Molti pensano che Kubrick non sia stato un regista “caldo”. Nel senso che era un costruttore di storie estremamente razionale, un cineasta ossessionato dal doppio, dallo specchio, dai labirinti: dalle gemelline abbiamo detto, vale per il labirinto di Shining e la moquette dell’Overlook Hotel (dove il tempo è immobile, così come il tempo è infinito nel finale di 2001). Ma basta una scena per contraddire in un colpo solo questa teoria. Stiamo parlando di Orizzonti di gloria (1957), quando una giovane prigioniera tedesca (interpretata da Christiane, la futura signora Kubrick) canta, impaurita e tenera, la canzone Der treue Husar ai soldati francesi della Grande Guerra. Una delle scene più commoventi della storia del cinema.
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