Breakfast Club: perché un film indie pop senza (troppe) pretese divenne simbolo di una generazione

Perché uno dei capolavori di John Hughes ancora oggi è un cult che ha aperto un genere che forse non si è mai chiuso? Proviamo a rispondere a una domanda a cui neanche il maestro saprebbe rispondere. E celebrando il quarantennale della data in cui quel racconto geniale e inquieto, malinconico e sensuale è ambientato

24 marzo 1984. No, non è la data di uscita di Breakfast Club, che aspettò un anno per vedere le sale, ma il giorno in cui il film di John Hughes, profeta dei film generazionali per eccellenza e tra le divinità del cinema più sottovalutate (dai colleghi, salvo poi citarlo ossessivamente e averlo come riferimento visivo e narrativo: molte delle mode pop degli ultimi anni vengono da lui, le serie tv più iconiche, da Dawson Creek a Gossip Girl, lo hanno esplicitamente onorato con puntate intere), è ambientato.

Quarant’anni da quella data che ha cambiato la vita a un gruppo di attori ma anche a milioni di spettatori, in anni ’80 cinematograficamente particolari, in cui Scorsese (ri)cominciava la sua battaglia contro Hollywood; Coppola faceva un film all’anno e tutti bellissimi – e non ditelo, ma a questo trend, a modo suo, contribuì eccome – dicendo che erano “just for money” e invece erano titoli cult che solo lui non ha saputo apprezzare; un gruppo di giovani ragazzi occupava l’immaginario di tutti noi senza accorgersene.

Difficile capire quanto grande fosse e quanti componenti avesse il Brat Pack, citazione della banda di topi sinatresca e papà del Frat Pack nato nel Saturday Night Live di inizio 2000 (e ora chi c’è che potrebbe emularli?).

È una risposta, un racconto che prova a dare e fare Alessandro De Simone. Noi siamo qui a raccontarvi perché, come ricorda Damiano D’Agostino, persino un posato per il loro manifesto è diventato una sorta di copertina di Abbey Road per il cinema (citato persino in Wonder Woman 1984).

Breakfast Club, come è diventato unico

John Hughes, intanto. Il suo cinema sembra e probabilmente è un racconto in controluce degli Stati Uniti più inquieti e ingenui, della parte buona di un paese dolente e indolente che in quei ragazzi dalla faccia sfrontata e malinconica si riconosceva, perché a loro disagio in una superpotenza reaganiana ed edonista che veniva fuori da proteste e New Hollywood.

Sapevano, quei ragazzi – in parte già noti per Sixteen Candles – Un compleanno da ricordare, 40 anni in questo 2024 (lui sì, davvero dall’uscita in sala) e vero alfiere di questo movimento d’attori e di coming of age – di essere condannati a una damnatio memoriae. Paradossalmente mai avvenuta, perché nel 1985 un giornalista regalò loro un soprannome.

Troppo bravi per il popolino di interpreti di quegli anni ’80 vacui che nel cinema commerciale si avvicendavano, a Hollywood e altrove, troppo giovani e informali per i mostri sacri anni ’70.

Una generazione di perdenti di successo

Capirono prima di altri – Robert Downey Jr. che ne fu uno dei fratelli minori ne è il simbolo con il suo Oscar tardivo e un po’ deriso – quello che tutti noi scopriremmo neanche 10 anni più tardi.

Questo non era un paese, pardon un mondo, per giovani.

Lo scoprono, loro, improvvisando una delle scene che tutti ricordano (e tanti autori hanno in seguito citato), quella in cui i protagonisti si siedono in cerchio e “confessano” le loro colpe. C’è qualcosa di decadente e dolcissimo, di simbolico in quella sequenza, così come nella scelta di Hughes di prendersi un mese (28 marzo – 29 aprile 1984) per girare, rigorosamente in ordine cronologico, con un effetto clamoroso sugli attori (Judd Nelson, pare, non sia mai uscito dal personaggio).

Erano tanti, erano profondamente diversi, da Rob Lowe che risorgerà varie volte – è una caratteristica di questi ragazzi -, finendo in West Wing vent’anni più tardi e per questo scelto come consulente politico dallo Schwarzenegger governatore della California a Emilio Estevez che, a suo modo, con Bobby, sul giorno della morte di Bob Kennedy visto da 24 persone diverse, raccoglie quell’eredità (e pensare che Breakfast Club lui non doveva farlo). E Demi Moore che, beh, è Demi Moore.

Perché Breakfast Club non è invecchiato

Breakfast Club non è invecchiato perché è diventato un classico quasi subito. Una sorta di grande freddo che aveva la visione e il respiro del presente, la presunzione di incarnarlo (al giorno), di interpretarlo, di conoscerlo meglio e prima di altri.

Perché J0hn Hughes ha avuto uno stile irripetibile, un pop indipendente d’autore che gli ha permesso di parlare – in quel caso, più di ogni altro – ai figli cool e scoglionati (perdonate il gergo non proprio tecnico, ma è perfetto per definirli) di un mondo che si autorappresentava come perfetto (e non lo era affatto), ma anche ai loro genitori.

Non è un caso che il regista si ritagli un cameo nella parte del padre di Brian.

Il cineasta non lo sa, ma racconta i genitori dei ragazzi che si faranno massacrare a Göteborg, Seattle e Genova nel 2001. I fratelli maggiori del grunge. Gli orfani del secolo breve. Lo fa in un’opera che forse pure lui inizialmente sottovaluta, che sente l’esigenza profonda di fare – in fretta e con chi c’è, accettando anche una lunga serie di inconsueti rifiuti per il cast, c’erano pochi soldi e molte idee – ma di cui non intuisce a piena la portata simbolica. Ed è la sua forza, perché quella naturalezza incosciente è parte del fascino di quest’opera.

Se ne rende conto quando Breakfast Club diventa il vestito mentale, materiale, morale, emotivo di una generazione. E probabilmente non ha mai saputo quanto sia stato il luogo in cui attori e spettatori si rifugiano per sentirsi al sicuro.

Anzi no, a disagio, ma senza più sentirsi soli.