L’anima punk di Stanley Kubrick trova nei videogiochi la sua nuova vita. Parola di Hideo Kojima, l’erede

Il cineasta di The Shining e Full Metal Jacket ha rivoluzionato il cinema, lo ha spinto oltre i limiti e ne ha riscritto le regole. E il designer di Metal Gear Solid e Death Stranding ne segue le orme, ma nella decima arte

Tutti dicono di essersi ispirati a Kubrick. O, quantomeno, lo riconoscono come una grande influenza e tessono le lodi dei suoi film. Ma la memoria collettiva sembra aver assimilato l’arte del cineasta statunitense a un livello più profondo oltre la banale riverenza, bensì in una forma quasi impercettibile di retaggio culturale.

Anche nel mondo dei videogiochi, che dai film hanno tratto grandi insegnamenti (anche se il rapporto tra le due arti solo ora sta iniziando ad essere sinceramente reciproco). Il direttore di Remedy Entertainment Mikael Kasurinen, ad esempio, in un’intervista a Dualshockers aveva dichiarato apertamente la grande ispirazione a Kubrick per la trama di Control, il videogioco fantascientifico uscito nel 2019 con protagonista l’agente del bureau Jesse Faden (interpretata da Courtney Hope).

Un’avventura weird tra linee temporali e universi paralleli la cui estetica affonda le mani nel brutalismo, nella fiction Ai confini della realtà, fino a X-Files e Twin Peaks. Ma l’influenza di Kubrick arriva non tanto sui contenuti, quanto nel modo di raccontare. “Ci siamo ispirati soprattutto alla metodologia di narrazione di Kubrick, che nei suoi film non dice esattamente allo spettatore ciò che sta succedendo”.

Control

Control. (Courtesy of Remedy Enterainment)

Il narrare di Kubrick

“In 2001 Odissea nello Spazio ogni evento può avere diverse interpretazioni, come il finale,” dice Kasurinen. “Quella scena è un ottimo esempio di come la mente umana può reagire entrando in contatto con qualcosa che va oltre la nostra comprensione e che è stata creata da un’intelligenza superiore”.

“È interessante perché il libro di Arthur C. Clarke è molto chiaro su ciò che sta realmente accadendo”, aggiunge il director. E conclude: “C’è un senso di soggezione, si è terrorizzati ma anche eccitati o interessati a ciò a cui si assiste. Questo è ciò che Kubrick sa fare molto bene in tutti i suoi film”.

Francesco Nasi su The Vision scrive che l’unicità del regista statunitense “sta nell’essere stato in grado, forse come nessun altro dopo Shakespeare, di mettere insieme cultura alta e bassa, il pubblico e la critica, il risultato commerciale con la profondità dei temi mai portati prima d’allora sullo schermo, diventando accessibile senza scadere nella banalità”.

Emblematica è la fotografia del disastro del Vietnam che Kubrick “scatta” in Full Metal Jacket, affrontando non soltanto l’orrore della guerra, ma anche il cameratismo e l’imperialismo americano, con i soldati che – camminando tra il fuoco e le macerie – intonano la canzone di Topolino.

Full Metal Jacket, di Stanley Kubrick

Full Metal Jacket. (Courtesy of Warner Bros.)

Piccole grandi rivoluzioni

La poetica e la filosofia kubrickiana non sono però solo nel racconto, ma anche dietro le quinte. Nella realizzazione delle sue opere, il cineasta di Eyes Wide Shut ha spinto la settima arte un po’ più in là. Ha sondato i limiti, ribaltato le regole, e poi le ha riscritte. Lavorare con lui non doveva essere facile, visto che è stato anche definito il “nemico degli attori” da Robert Duvall, a causa della sua ossessione per la perfezione.

La steadicam, strumento che permette agli operatori di trasportare la macchina da presa per realizzare sequenze dinamiche, è stata perfezionata da Garrett Brown e sfruttata al suo massimo potenziale sul set di The Shining, per assecondare le richieste di Kubrick. Oppure quando, durante le riprese di Barry Lyndon, il regista volendo utilizzare quanta più possibile la luce naturale, ha chiesto a Ed Di Giulio e Brown di adattare un obbiettivo Carl Zeiss (prodotto in dieci esemplari per le missioni Apollo della Nasa) a una macchina da presa. E c’è riuscito.

Piccole grandi rivoluzioni che hanno cambiato le regole e il cinema. Kubrick, in questo, era decisamente punk. E se è vero che la sua influenza è onnipresente, è anche vero che la sua eredità è pesante. Nel mondo dei giochi digitali, però, qualcuno è arrivato a essere considerato lo “Stanley Kubrick dei videogiochi”, costui è Hideo Kojima.

Jack Nicholson in una scena di Shining di Stanley Kubrick (1980)

Jack Nicholson in una scena di Shining di Stanley Kubrick (1980)

Kojima, il “Kubrick dei videogiochi”

Il game designer giapponese, 60 anni, ha realizzato alcuni dei titoli più importanti di quella che ora viene definita “decima arte”. E la sua fama, che lo ha portato a essere una delle figure più amate del settore (in un mix strano tra la sincera ammirazione e il culto della persona), è dovuta a grandi successi come il franchise di guerra fantapolitica Metal Gear Solid (dal primo nel 1987 fino all’ultimo nel 2018).

Un’opera che – oltre ad aver venduto più di 60 milioni di copie – ha dato il via allo sviluppo del genere stealth, cioè in cui i giocatori e le giocatrici vestono i panni di personaggi tattici e silenziosi, spie, assassini e quant’altro. E poi la sua ultima fatica, Death Stranding, che coinvolge attori di alto profilo come Norman Reedus, Léa Seydoux e Mads Mikkelsen in una storia fantascientifica bizzarra, in un mondo diviso e invaso da creature e fazioni pericolose.

Il gioco in sé, dal quale A24 sta sviluppando un film, può essere descritto riduttivamente come un simulatore di consegne, che però è riuscito a rendere intrigante e dinamico lunghe traversate in lande desolate (altrimenti soporifere), rivoluzionando il concetto di gameplay e permettendo ai giocatori di interagire online costruendo strade gli uni per gli altri, per facilitare i viaggi e riunire l’umanità in questo scenario devastato.

Death Stranding va oltre il concetto di conflitto tipico di una grande fetta di videogiochi, e regala una storia profonda, cinematografica e folle. Anche Hideo Kojima, in fondo, è un punk. E questo suo estro, come quello di Kubrick, di pensare – come direbbero gli anglosassoni – “fuori dalla scatola”, si nota principalmente in un’opera abbastanza secondaria dell’autore nipponico, uscita per Game Boy Advance, la console portatile di casa Nintendo.

Norman Reedus in una scena di Death Stranding

Norman Reedus in una scena di Death Stranding

Un’anima punk

“Il punk non demolisce solo le tradizioni, le regole e i sistemi politici dei nostri predecessori, ma cerca attivamente di riformare e di creare da zero”, scrive Kojima in un articolo uscito per byNWR, la piattaforma di streaming d’essai di Nicolas Winding Refn (Drive, The Neon Demon). “Non si limita a negare l’epoca attuale, ma cerca di perfezionarla e di prosperare al suo interno”.

Nel 2003, il designer progetta e produce Boktai: The Sun is in your hands, un videogioco d’avventura in cui i giocatori controllano un giovane ammazza-vampiri di nome Django. Queste creature non morte possono essere uccise da un’arma chiamata Gun Del Sol, che spara proiettili di luce solare.

La bizzarria del gameplay di Boktai è proprio in quest’elemento di gioco. Per far sì che la luce del sole carichi le pallottole, i giocatori devono recarsi in determinati punti della mappa, oppure uscire di casa. Sulla cartuccia di Boktai, infatti, si trova una fotocellula che rileva la luce solare, e che ricarica quindi la Gun Del Sol.

Il meteo influenza il gameplay, e se fuori è una giornata uggiosa, è importante muoversi con attenzione nei livelli. Evitare il conflitto, aspettare il bel tempo e uscire a (video)giocare.

“Mentre il Rock si ferma al desiderio di sfidare il presente, lamentarsi del passato e distruggere entrambi, il punk va oltre”, scrive Kojima. “Non si limita a esprimere la propria insoddisfazione, ma resiste e continua ad andare avanti”. E conclude: “Il potere del punk è sottile ma straordinario”.

Boktai: The Sun Is In Your Hands

Boktai: The Sun Is In Your Hands