Kafka a Teheran, contro il regime le armi del sarcasmo e del paradosso. Nove “quadri” per raccontare l’Iran

Arriva in sala il film a episodi di Ali Asgari e Alireza Khatami, nel quale il potere della risata diventa lo strumento d'opposizione più forte contro il governo del Paese. Dove si sono contati oltre 20 mila arresti e 600 morti nell'anno che ci separa dalla morte di Mahsa Amini

Una criminale: ecco cos’è Sadaf (Sadaf Asgari) agli occhi della poliziotta che la interroga in uno dei nove episodi di Kafka a Teheran. Criminale, non ragazza né donna, ma nemmeno ribelle o dissidente. La sua colpa è immortalata in una fotografia, al volante, senza velo. Sadaf, con i suoi cortissimi capelli ossigenati, prova a difendersi con l’unica arma che ha: le parole, il sarcasmo pungente, contro un interrogatorio che scivola sempre più nell’assurdo. Ma non c’è alcuna via d’uscita.

Mahsa Amini, una storia che si ripete

Colpisce la storia di Sadaf, forse un po’ più delle altre otto, perché la sfida nei suoi occhi è la stessa di migliaia di persone che da oltre un anno protestano e scendono in piazza in Iran. Sono 22 mila gli arresti accertati fino a oggi durante le manifestazioni contro il regime di Ali Khamenei. E 600 i morti. Da quando il 16 settembre 2022 Mahsa Amini è stata massacrata dalla polizia morale e lasciata morire in ospedale.

Tredici mesi dopo, un’altra ragazza, questa volta solo sedicenne, si sta aggrappando alla vita, in coma con le stesse ferite alla testa. Armita Garawand stava andando a scuola in metropolitana. Come molte altre ragazze della sua età aveva scelto di tagliare i capelli e non indossare più il velo in segno di protesta. C’è un video delle telecamere di sicurezza che la riprende sulla banchina e, qualche minuto dopo, priva di sensi, mentre viene trascinata fuori dal vagone da alcune donne.

La versione ufficiale è una brutta caduta dopo un calo di pressione. Come per Mahsa Amini erano i problemi di cuore. Ma non si può dire apertamente altro. Così come non possono farlo Ali Asgari e Alireza Khatami nel loro film, Kafka a Teheran. I due registi trovano quindi una chiave ironica e una struttura inusuale per raccontare la repressione sociale del regime.

Una scena di Kafka a Teheran

Una scena di Kafka a Teheran (Courtesy of Academy Two)

L’umorismo che rilegge la realtà

Settantasette minuti e nove episodi risuonano come nove strofe di una stessa poesia, con un prologo e un epilogo. Versetti terrestri, infatti, è la traduzione letterale del titolo originale (Terrestrial Verses), ispirato a un’opera di Forough Farrokhzad, fondamentale autrice femminista iraniana tra gli anni Cinquanta e Sessanta. L’adattamento italiano di Academy Two, tuttavia, coglie un aspetto ulteriore dell’opera, facendo riferimento a Kafka e all’immediata connessione fra l’aggettivo kafkiano e una situazione assurda. Divertente in superficie ma profondamente angosciante man mano che se ne scoprono gli strati.

Ad accomunare i nove quadri è l’identica struttura di un dialogo fra il personaggio davanti alla macchina da presa e quello che resta sempre fuori campo. Può essere un datore di lavoro, un’autorità, uno psicologo o una commessa in un semplice negozio di abbigliamento per bambine: il personaggio fuori dallo sguardo e dal controllo dello spettatore è sempre quello in cui si incarnano i precetti del regime. Quello in cui è impossibile identificarsi, proprio per la grammatica del film, che lo esclude dalla visione. E lo “mostra” solo come l’oppressione dall’alto.

Una scena di Kafka a Teheran

Una scena di Kafka a Teheran (Courtesy of Academy Two)

A sfidarlo sono i comportamenti dei comuni cittadini e il loro umorismo puntuale e irresistibile. Di fronte alla totale privazione di libertà raccontata nel film, persino nella scelta del nome del proprio figlio o dei vestiti con cui andare a scuola, Asgari e Khatami permettono al pubblico di ridere. E ridere di gusto, guardandosi allo specchio e sgretolando il potere del regime con la forza dell’ironia e del sarcasmo.

La stessa forza è in grado, metaforicamente, di far crollare la città che nel prologo di Kafka a Teheran era un vortice claustrofobico di rumori e urla lontane. Quelle stesse “voci imprigionate”, come scriveva anche Farrokhzad nei suoi Versetti terrestri, trovano “un tunnel di luce nella notte”, una forma di espressione e amplificazione che da Teheran arriva al resto del mondo, passando da Cannes fino alle singole sale cinematografiche.

Kafka a Teheran è il terremoto del suo finale. Una scossa che rade tutto al suolo per ricostruire. Ma non è ancora abbastanza, almeno fino a quando chi ha avuto il coraggio di realizzarlo non sarà del tutto libero. Secondo un’esclusiva di Variety, infatti, dal giorno della presentazione del film a maggio sulla Croisette, Ali Asgari si trova in stato di fermo in Iran, dove le autorità hanno ritirato il suo passaporto.