La distopia di White Plastic Sky parla dell’oggi, del domani e del futuro lontano (e lo fa prima del tempo)

Budapest nel 2123 è chiusa sotto una cupola, isolata dal resto del mondo (devastato dai cataclismi climatici). Passata al Torino Film Festival, l'animazione ibrida di Sarolta Szabó e Tibor Bánóczki è un'opera filosofica stratificata, a volte poco chiara e con un'aura quasi mitologica. Ma pone riflessioni sul presente, e già che c'è si interroga sul ventiduesimo secolo

Per certi versi, White Plastic Sky è un film uscito prima del tempo. Strati di questa pellicola – i più visibili – parlano dell’attualità, della crisi climatica e della situazione politica ungherese, che gli stessi autori, dopo i titoli di coda, hanno definito “fucked up”, letteralmente “fottuta”. Tanti livelli di interpretazione per un’opera d’animazione strana e peculiare. Ibrida, certamente, nella narrazione e nel look visivo, con un contrasto netto tra uno stile più disegnato e un altro più fotorealistico.

Ungheria, 2123. Il governo di Budapest, dati i cataclismi climatici che hanno devastato il pianeta, ha chiuso la città sotto una cupola, isolandola dal resto del mondo. Per sostentare la popolazione e far crescere la vegetazione, i cittadini, compiuti i cinquant’anni, devono farsi impiantare un seme nel cuore, che li porterà di lì a pochi giorni a diventare alberi. Il loro viene definito dall’attuale cultura come un sacrificio per la sopravvivenza del genere umano.

Una scena di White Plastic Sky

Una scena di White Plastic Sky

Tanti temi tutti insieme

Una società ingegnerizzata a là Blade Runner. Non quello di Ridley Scott, e che ha gettato le basi per il genere cyberpunk insieme alla letteratura di Gibson, ma quello del controverso William S. Burroughs, e di quel soggetto tratto dal Medicorriere di Nourse da cui poi Scott ha preso solo il titolo.

White Plastic Sky riflette su questo tema, e su altri dieci. Critica aspramente la dittatura, nonché la dottrina che sta spopolando nella Silicon Valley, quella del lungotermismo. Una filosofia che pensa al futuro sul lungo periodo, appunto, le cui premesse sono più condivisibili rispetto alle sue derive, spesso discriminatorie.

Il film, diretto da Sarolta Szabó e Tibor Bánóczki e passato al Torino Film Festival, è portato avanti da una storia d’amore quasi mitologica, degli Orfeo ed Euridice del ventiduesimo secolo. Nora, anni dopo la morte del figlio avuto dalla relazione con Stefan, decide di farsi impiantare il seme che la porterebbe a trasformarsi in albero all’età di 32 anni.

Stefan, che nella vita è uno psichiatra che affronta su base quotidiana la sofferenza e il lutto di chi ha lasciato i propri cari arrivata la mezza età, non riesce ad accettare di perdere la moglie. E mentre lei si avvicina allo scadere del suo tempo, Stefan tenta disperatamente di salvarla e di provare a invertire il processo.

Una scena di White Plastic Sky

Una scena di White Plastic Sky

E altri ancora

Una storia che discute anche della libertà dei corpi, del suicidio assistito, e più si riflette sulle immagini e sui dialoghi, più aggiungono tematiche al tavolo, talvolta senza trattarle direttamente, bensì lasciandole sospese in attesa di essere colte come frutti da un albero.

Però ci sono, nel denso sottotesto, e si manifestano timidamente nel corso della storia d’amore di Nora e Stefan, che trascina nel calderone anche il tema dell’evoluzione del genere umano e della relazione ecologica con la natura.

Il lavoro di Szabó e Bánóczki è quindi un saggio filosofico stratificato e interessante, empatico e avvolgente. Spesso poco chiaro e prolisso, con chiare influenze del cinema contemplativo. Un’ora e cinquanta decisamente ambiziosa, con uno stile bizzarro e di cui si coglie l’estro artistico e la derivazione post-sovietica. E il risultato sorprende, a ogni fotogramma.

Una cosa è certa, White Plastic Sky – in alcuni momenti – parla alla società di oggi, quella ungherese e non. Per altre tematiche, invece, è avanti di almeno dieci anni. Nulla da fare, toccherà rivederlo nel 2033.