Può togliersi la vita una rivoluzione musicale? Sì, può: la parabola brevissima e luminosa di Kurt Cobain lo dimostra con precisione millimetrica. Chi c’era se la ricorda con assoluta chiarezza quella manciata di anni dal 1991 al 1994. L’amico che ti raccontava d’esser stato al concerto di un gruppo di cui s’incominciava a parlare, si chiamavano Pearl Jam (“pazzesco, mai visto niente del genere”, e quasi tremava), quei raduni oltreoceano che sembravano una versione aggiornata di Woodstock, le camicie immense a scacchi, i jeans strappati, i musicisti che sui palchi saltellavano come molle, i capelli che d’improvviso erano tornati lunghi dopo un intero decennio a prevalenza corta e laccata.
E ancora: la bomba musicale che fu Blood Sugar Sex Magik dei Red Hot Chili Peppers, che pure erano in giro già da un bel po’, e hai presente quegli altri tipi di Seattle, i Soundgarden? Che voce incredibile quel Chris Cornell. Poi t’imbattevi nel video di Hunger Strike dei Temple of the Dog, che praticamente erano un crocevia giust’appunto dei Pearl Jam e dei Soundgarden, la cencioluta aristocrazia rock di Seattle, città che alle nostre latitudini fino a quel punto in pochi avevano nel radar se non per il vago ricordo che c’era nato Jimi Hendrix e che, invece, di colpo, era diventata la capitale mondiale di chi aveva della musica e del mondo un’idea diversa di quella dei telegiornali.
Mettete in fila alcuni degli album che uscirono in quel magico 1991 (il nuovo “anno santo” del rock, così come lo era stato, varie ere stellari prima, il 1967 con il già citato Hendrix, i Beatles di Sgt. Pepper’s, i primissimi Pink Floyd, i Doors, la Summer of Love e il festival di Monterey): Nevermind dei Nirvana, appunto Blood Sugar Sex Magik, Ten dei Pearl Jam, Badmotorfinger dei Soundgarden, l’album omonimo dei Temple of the Dog, ma anche – fuori dallo stretto confine del grunge – il disco fondamentale dei Rem, Out of Time, quello di Losing My Religion per intendersi… ed erano anche gli anni dei Jane’s Addiction, dei Mudhoney, di Alanis Morrissette e ne potremmo citare decine d’altri.
Fu una sorpresa, per la verità. Era da secoli, forse dall’epifania del punk del 1977 e della sua scia (che si propagò, in effetti, fino ai primissimi anni ottanta), che il mondo non assisteva ad una tale esplosione di creatività musicale. È vero, era musica che “parlava” con gli anni sessanta, ma sapeva mescolarvi Sex Pistols, heavy metal, i Kiss, alla bisogna il luminoso funk nero, il blues dei garage: aveva riscoperto la “sporcizia” della musica e, entro certi limiti, la ribellione.
Il grunge (ma in realtà non fu un fenomeno circoscritto in quel genere) arrivava come un fulmine, folgore e tuoni annessi, dopo diversi anni di riflusso musicale, nei quali forse solo Prince e Michael Jackson (ma qui siamo in un’altra galassia, lontana lontana, quasi da laboratorio di particelle nucleari) facevano alzare le sopracciglia della noia con luminosi lampi di genio. Non solo: per la prima volta da millenni (millenni se si considera la velocità fulmicotonica con cui ancora si muoveva la musica allora) si palesava un suono che era anche identità e rivolta, che aveva una sua forza generazionale e sociale, come non succedeva – appunto – dai tempi furiosi del punk.
E, soprattutto, era una musica che arrivava dal basso: dalle cantine, dai circuiti, dalle fanzine, dai club, dai locali, dalle etichette indipendenti. Dopo anni di egemonia elettronica e di iper-produzione, si tornava a suonare, a pestare sulle chitarre, sui bassi, sulle batterie. L’industria discografica era ai margini, agli inizi del grunge: poi ha pensato bene di monetizzare, come sempre accade, con quelle camicione a scacchi tramutate di colpo in gadget.
Come alla fine degli anni sessanta e nei primi settanta, era libertà quella che iniziavi a respirare, di nuovo. Chi c’era quel venticello se lo ricorda bene, ed era eccitante. Era revolution in the air, come un discreto numero di anni prima aveva cantato Bob Dylan. Ecco, quasi sicuramente, fu un’illusione, l’ennesima. O forse no. Di sicuro è stata l’angoscia su quest’illusione a premere il grilletto dell’arma puntata alla testa di Kurt Cobain nella sua villa sul lago di Washington, il 5 aprile di trent’anni fa. Un colpo che trasformò Kurt in una specie di santo, nell’ultimo martire del rock. Un colpo che suicidò l’ultima rivoluzione del rock.
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