The day the music died. Per Don McLean, che ne canta in American Pie, è stato il 3 febbraio 1959 quando Buddy Holly, Ritchie Valens e JD “the Big Bopper” Richardson morirono in un incidente aereo mettendo fine alla spensieratezza degli anni Cinquanta. Per la Generazione X “il giorno in cui la musica morì” è stato il 5 aprile 1994. A mettergli fine un colpo di fucile. Quello che Kurt Cobain, all’epoca leader dei Nirvana e punto di riferimento per schiere di ragazze e ragazzi che come lui sentivano lo stesso spaesamento, si sparò in testa al 171 Lake Washington Blvd, East Seattle. Al ritrovamento del suo corpo senza vita, tutto era finito.
Anche se per Cobain la parola “fine” era arrivata molto prima. “Il fatto è che io non posso imbrogliarvi, nessuno di voi. Semplicemente non sarebbe giusto nei vostri confronti né nei miei. Il peggior crimine che mi possa venire in mente è quello di fingere e far credere che io mi stia divertendo al 100%. A volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco”, lascerà scritto in una lettera di addio ritrovata accanto al suo corpo.
Profeta suo malgrado e santino grunge. Niente di più lontano da quello che sentiva di essere. Eppure, come chi prima di lui è uscito di scena troppo presto e in modo innaturale – complice una fama mondiale – la sua eredità musicale si è mischiata a retorica spicciola finendo per svuotare l’uomo a favore del simbolo.
A trent’anni dalla sua morte si può affermare però che quella dei Nirvana è stata l’ultima grande rivoluzione musicale capace di rispondere ad una precisa atmosfera sociale, politica e culturale. Un movimento che in quel ragazzo con gli occhi azzurri aveva trovato un leader da incoronare. Non è un caso che Bill Clinton, all’epoca presidente degli Stati Uniti, cullò l’idea di parlare alla nazione e si temesse un’ondata di atti emulativi. Solo che lui il peso di quella corona non ha voluto portarlo – e non è un caso nemmeno che uno dei suoi punti di riferimento musicali fosse John Lennon, un altro che preferì ritirarsi per cinque anni e vivere la sua vita lontano da investiture collettive non richieste. Nonostante Cobain avesse cercato, fin da adolescente, l’accettazione e la riproduzione del calore di una famiglia.
Cobain: Montage of Heck, il documentario definitivo
Lo aveva raccontato Brett Morgen nel 2015 in Cobain: Montage of Heck, il documentario definitivo sul leader dei Nirvana (disponibile a noleggio su Apple TV+ e YouTube). Una produzione durata sette anni, co-prodotta da sua figlia Frances Bean Cobain e realizzata con il benestare di Courtney Love, la vedova – al pari di Yoko Ono – più odiata del rock. Morgen, che ha avuto accesso illimitato all’archivio personale e familiare del musicista, ha realizzato un’opera che poco ha a che vedere con la band di Seattle, la popolarità e l’allure da rocker maledetto e molto più con il bambino, il ragazzo e l’uomo che ha passato l’esistenza a fare i conti con le voragini della sua infanzia e adolescenza.
E lo ha fatto usando la sua stessa voce, quella impressa su una serie di registrazioni casalinghe della fine degli anni Ottanta in cui Kurt Cobain racconta la sua storia. Quella di un ragazzino di Aberdeen, cittadina dello Stato di Washington – il cartello stradale al suo ingresso recita Come As You Are, come una delle canzoni più celebri dei Nirvana – che alla soglia dell’adolescenza vede la sua famiglia sgretolarsi davanti ai suoi occhi. I suoi genitori divorziano. E quel senso di calore e protezione svaniti saranno la sensazione che andrà a cercare ovunque. Nella musica, nelle relazioni, nelle droghe.
Brett Morgen prende ore di filmini personali, diari, brani inediti e mette in ordine – complici le parole dei suoi familiari, di Kris Novoselic e Courtney Love – i tasselli per provare a capire chi fosse davvero quel ragazzino con la maglia a righe, le Converse e lo sguardo perso. Sempre senza cercare di mitizzalo. Ma fa di più. Da un lato i disegni e le parole scritte sui suoi diari prendono vita sullo schermo, dall’altro le registrazioni che danno il titolo al documentario vengono accompagnate da delle animazioni realizzate da Stefan Nadelman e Hisko Hulsing.
Kurt Cobain come Holden Caulfield
Ed è così che si finisce per trovarsi di fronte ad una versione punk di Holden Caulfield, il protagonista del capolavoro di J.D. Salinger. Come Holden anche Kurt ha quella sfrontata onestà nel raccontarsi, nel sentire “troppo”, nel disgusto per l’ipocrisia, nel capire il mondo così profondamente da provare dolore. E come Holden è irrequieto e ha un disperato bisogno di essere amato, capito, ascoltato.
“Non leggere il mio diario quando non ci sono. Ok, adesso vado a lavorare. Quando ti svegli stamattina, leggi pure il mio diario. Fruga tra le mie cose e scopri come sono fatto”. Cobain: Montage of Heck ci fa capire un po’ di più com’era fatto, cosa pensava e provava quel ragazzo di Aberdeen messo da una generazione su un piedistallo da cui ha deciso di scendere nel modo più assoluto e doloroso possibile. “È meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente” scrisse prima di congedarsi dal mondo. Ma certe fiamme continuano a bruciare. E Kurt Cobain, proprio come Holden Caulfield, è diventato immortale.
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