Claudio Castrogiovanni è stato Capitan Uncino a teatro e ha debuttato, sul palco, in Jesus Christ Superstar e al cinema in Malèna di Giuseppe Tornatore. Il pubblico italiano però lo ricorda soprattutto per i ruoli televisivi legati ai polizieschi e al crime, da R.I.S. a Squadra antimafia e da Il capo dei capi a Il cacciatore.
Dal 27 marzo al 17 aprile torna in prima serata accanto a Giusy Buscemi e Giorgio Marchesi in una nuova veste, quella dell’ispettore capo Spanò in Vanina – Un vicequestore a Catania. Miniserie che segna un primo importante cambiamento nel suo percorso professionale. Nel prossimo futuro, però, guarda già a un cinema più impegnato, indipendente e d’autore. “Mi sto aprendo a possibilità che dieci anni fa ero io stesso a precludermi”, afferma nell’intervista con THR Roma.
Che uomo è il suo ispettore capo Spanò? Sembra diverso dai personaggi che interpreta di solito.
Sì, effettivamente è così. Spanò ha un passato di operatività sul campo ma è un uomo che vive “dentro” la questura di Catania. Separato dalla moglie, senza figli, è una persona che ha sempre trovato il suo rifugio dentro la questura e nella polizia. È uno di quei personaggi di Catania che emergono dai miei ricordi, quelli che giravano in moto in borghese, abbastanza ambigui, impossibili da distinguere dai piccoli criminali. Ha una grande memoria geografica e sociale della zona e si relaziona con il vicequestore (Giusy Buscemi, ndr) con fare molto paterno, in un rapporto anche ironico e scherzoso. Tende a dissacrare le situazioni emotivamente più profonde con l’umorismo.
Si può definire una spalla comica della serie?
Sì, esatto. Questa variante ironica o comunque più sorridente della narrazione è molto lontana da me, non l’ho mai fatta né al cinema né in televisione, anche se l’ho sempre affrontata in teatro, nel passato.
Cosa rappresenta, per lei, Vanina nel contesto della sua carriera?
È un progetto di cui sono molto felice innanzitutto perché è un nuovo incontro con Davide Marengo, dopo Il cacciatore, un regista sempre attento e in ascolto. Vanina mi ha dato anche l’opportunità di conoscere Giusy Buscemi che mi ha sorpreso per l’enorme umanità, la grandissima professionalità, curiosità e il talento. Porto con me anche un cast incredibile, una produzione che sa fare il proprio mestiere con molta intelligenza, anche creativa e che sa scegliere le storie, sia in televisione che al cinema. Questa, in particolare, è un’alchimia che non sempre c’è. Mi sono divertito in questo progetto e sono convinto che si percepisca.
Guardando al futuro, lei è protagonista di Spiaggia di vetro di Will Geiger, film ambientato sullo Stretto di Messina. Qual è la storia dietro l’immagine suggestiva dei sassi di vetro?
L’immagine è proprio di quella di una delle spiagge dello Stretto, ricoperta di piccoli pezzi di vetro colorati. È una storia che ha fatto vibrare ogni mia cellula, non solo perché mi ha dato la possibilità, a 55 anni, di tornare per cinque settimane nei luoghi dove sono cresciuto e che mi risuonano nell’anima. Ho potuto raccontarli e soprattutto raccontare di un uomo che vive un evento così drammatico da squassargli l’esistenza, ma che impara a perdonare, prima di tutto se stesso. Mi ci sono avvicinato per caso, quando circa cinque anni fa ho ricevuto a Messina il premio Adolfo Celi e in quell’occasione ho incontrato il produttore Simone Catania di Indyca. Era già mia intenzione cercare di fare un cinema più sociale, anche perché ho sempre avuto la sensazione di essere stato catalogato come quello che fa solo televisione. È stato lì che Catania mi ha proposto la sceneggiatura di Spiaggia di vetro.
La presenza di uno sguardo americano, Will Geiger, ha influenzato il racconto oppure ha colto qualcosa di molto specifico legato al territorio?
Geiger, che ha fatto diverse cose a Hollywood tra cui un film di Free Willy, conosceva Messina perché la sua insegnante un giorno gli mise davanti il mappamondo e il suo dito cadde su quel punto del Mediterraneo. Lui ha proprio vissuto a Messina, per un paio di anni. È andato a conoscere i pescatori di pesce spada, si è imbarcato con loro facendo un documentario ed è riuscito a scrivere una sceneggiatura ambientata tra Messina, Scilla e Villa San Giovanni (Reggio Calabria, ndr) attraverso cui sembra appartenere a quel mondo da generazioni. Non racconta i cliché dell’americano in Sicilia.
Tra me e Geiger, poi, si è creata una perfetta simbiosi. Io ho letto la sceneggiatura circa due anni e mezzo prima delle riprese, vivendo da vicino gli sforzi di una piccola produzione per realizzare il progetto. Il film non ha ottenuto i contributi del ministero per ben due anni di seguito, ma è stato supportato dalle Film Commission della Calabria e della Sicilia e da produttori tedeschi privati.
Considerando il suo reindirizzamento verso il cinema indipendente e d’autore, Spiaggia di vetro sarà anche un film politico?
Non esattamente. Non c’è un tema politico esplicito, ma un più ampio messaggio di integrazione e convivenza con l’altro che parte dal legame del protagonista con il personaggio di Moussa, una presenza inaspettata che contribuisce a cambiare il suo modo di vedere le cose. Fa anche questo parte appunto del percorso che sto intraprendendo con la mia agenzia, la Diberti, in particolare con Enrico Storelli.
In questo percorso la Sicilia sarà sempre una costante o inizia a starle stretta?
È una bella domanda, perché appunto, ho fatto un grande lavoro per affrancarmi affrancarmi dalla mia provenienza, ma non perché io rinneghi quelle che sono le mie origini o il filone di lavori in cui mi sono inserito. Temo piuttosto che possa diventare una gabbia da cui sarà sempre più difficile liberarsi. Ho iniziato a farlo anche con la serie Cattleya sul massacro del Circeo, in cui interpreto un avvocato della provincia di Latina. Un ruolo che è una conquista per un attore siciliano, perché di solito avviene il contrario, che un romano o un napoletano faccia il siciliano.
In generale vorrei poter avere accesso a tutto ciò che è la recitazione e oggi, secondo me, queste possibilità le ho. Forse dieci anni fa non le avevo ma perché dentro di me io stesso non me le riconoscevo. Ero ancora molto più attento alla dizione e alla comunicazione del corpo. Adesso è diverso.
Adesso, in realtà, ha avuto anche la possibilità di tornare su uno dei suoi ruoli più noti, quello del boss Luciano Liggio, da Il capo dei capi (2007) al film Il giudice e il boss. Com’è stato?
Una grande fatica. La mia scelta è stata dettata da due motivi fondamentali. Uno è la profonda amicizia e soprattutto la stima nei confronti di Gaetano Bruno, al quale hanno proposto di fare Cesare Terranova. È stato lui a proporre poi il mio nome. Il secondo è Pasquale Scimeca, del quale ho visto qualche film, interessandomi alla sua visione del cinema. È chiaro che il viaggio dal 2007 a oggi significa tanto. Diciassette anni dopo ho una famiglia e una nuova consapevolezza ed è strano entrare così in quelle vesti. Mi ha incuriosito di più, però, perché si racconta un Luciano Liggio molto più privato, con scene anche crude e violente.
Non è la stessa cosa che, forse, ha portato a tutte le storture dopo Il capo dei capi e a quella fascinazione a cui hanno fatto seguito Gomorra e Romanzo criminale. Il film riesce a sublimare questo aspetto, mi auguro.
Ci sono già delle prospettive di distribuzione, sia per Il giudice e il boss sia per Spiaggia di vetro?
Su Il giudice e il boss è ancora presto per dirlo, mentre Spiaggia di vetro è in fase di post-produzione con l’intenzione di entrare nel circuito festivaliero prima di un’eventuale distribuzione. Sono convinto che questo film possa fare molta strada.
A questo punto della sua carriera c’è un ruolo che ancora desidera ottenere? Magari in una commedia o in un musical, visto il suo passato a teatro.
Non saprei. La commedia musicale mi ha, appunto, sempre affascinato. Ho iniziato con Jesus Christ Superstar, il prototipo del musical rock, e mi sono addentrato in diversi ruoli fino a Capitan Uncino nel musical di Peter Pan. Il solo ricordo di quanto fosse faticoso stare sul palco per due ore e mezza, però, mi fa pensare che il teatro sia più per i giovani (ride, ndr). Devo dire che ero proprio tagliato per Capitano Uncino, io e il regista l’avevamo messo a punto facendo un mix di tutto quello che ci piaceva. Avendo studiato il metodo Lecoq, alla scuola del Teatro Arsenale di Milano, ho lavorato molto sulla capacità di espressione corporea per immagini, come un cartone animato. Roger Rabbit, per esempio, che viene colpito e gli si allarga il piede. È su quella visualizzazione della ‘densità molecolare’ che ho imparato a lavorare, su immagini estroflesse.
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