Giorgio Albertazzi, i cento anni del divo del cinema mancato (ma attore sovrano in teatro)

Per il centenario dalla nascita, THR Roma ripercorre le tappe professionali più importanti della carriera dell'attore toscano: dall'esordio sul grande schermo nei primi anni Cinquanta al trionfo sulle assi del palcoscenico

Giorgio Albertazzi, uno dei volti più noti e amati del teatro e della tv italiana, compie 100 anni: è nato a Fiesole il 20 agosto del 1923, ed è morto 92enne a Roccastrada, sempre in Toscana, il 28 maggio del 2016.

Visto che parliamo di un centenario, facciamo un giochino squisitamente anagrafico. Albertazzi, classe 1923, è perfettamente incastonato fra Alberto Sordi (1920), Nino Manfredi (1921), Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi (1922) e Marcello Mastroianni (1924). E con uno di loro, Gassman, aveva molte cose in comune: il fisico aitante, la virile bellezza, la voce impostata dalla dizione perfetta, le ottime letture, la cultura e lo spessore intellettuale, lo status di mattatore teatrale e, naturalmente, il talento.

Un divo del cinema mancato

La domanda, quindi, è: perché Giorgio Albertazzi non è diventato un divo del cinema? Le risposte sono molteplici, e prima di elencarle vediamo cosa ha combinato, Albertazzi, al cinema. Perché al cinema, i grandi interpreti di quell’epoca, sono prima o poi arrivati tutti, persino Dario Fo – quello che fra i mostri sacri del teatro italiano ha meno frequentato gli schermi; persino Carmelo Bene – che il cinema, notoriamente, lo odiava! Ma molti hanno avuto con il cinema un rapporto incompiuto o irrisolto, e non certo per mancanza di telegenia o per presunta incapacità nello stare davanti a una macchina da presa, anziché di fronte a un pubblico presente e pagante.

Ne è prova provata, anche nel caso di Albertazzi, il prestigioso curriculum televisivo di tanti divi e tante dive del nostro teatro. I mitici “sceneggiati” Rai, con i quali sono cresciuti tutti coloro, fra noi, che hanno almeno una cinquantina d’anni erano una miniera di grandi attori. Qualche nome? Umberto Orsini, Corrado Pani, Lea Massari, Paolo Ferrari, Tino Buazzelli, Anna Proclemer, Tino Carraro, Salvo Randone, Lilla Brignone, Andreina Pagnani, Giulio Brogi, Luigi Vannucchi, Franco Parenti, Alberto Lionello, Anna Maria Guarnieri, Ferruccio De Ceresa, Renato De Carmine, fino ad arrivare a Nino Castelnuovo e Paola Pitagora (gli immortali Renzo & Lucia di un immortale I promessi sposi), e chissà quanti ne dimentichiamo.

Forse l’unico mattatore che ha tenuto brillantemente i piedi in due scarpe è stato Gino Cervi, capace di essere un indimenticabile Maigret in tv e un altrettanto indimenticabile Peppone nei film su Don Camillo. Per il resto quasi nessuno, ma dicasi nessuno di tutti i grandi interpreti appena citati è diventato una star del cinema importante anche dal punto di vista commerciale. Alcuni di loro hanno fatto importanti film d’autore; ma al botteghino cinematografico, in quegli anni, regnavano i “colonnelli” della commedia. E nello stesso periodo in cui Sordi girava Una vita difficile e Gassman si accingeva a sfondare con Il sorpasso, Albertazzi era protagonista di L’anno scorso a Marienbad

Giorgio Albertazzi al cinema

Albertazzi esordisce al cinema nei primi anni Cinquanta, con ruoli quasi sempre di contorno. Diventa quasi subito, invece, una star della tv: interpreta un Delitto e castigo che va in onda nel marzo del 1954, nei primi mesi di vita della Rai. I suoi anni Cinquanta sono tempi di film modesti e di trionfi teatrali, anche con Luchino Visconti. È probabilmente il grande curriculum teatrale che convince Alain Resnais a sceglierlo per un ruolo, in Marienbad, dove le battute vanno più “declamate” che recitate.

Il suo personaggio si chiama X, uno “straniero”, e serve un attore con un accento esotico (quello italiano va benissimo). Il film ottiene allo stesso tempo un grande riscontro e un immediato status di “stracult”, il famoso “gioco dei fiammiferi” spopola nei salotti buoni, certe battute (“Vi ripeto che è impossibile, non sono mai stata a Frederichstadt!” “Allora era altrove forse? A Carlstadt? A Marienbad? O a Baden Baden?”) suscitano risate di scherno nelle sale di periferia e vengono ripetute dagli spettatori intellettuali, o aspiranti tali.

Albertazzi diventa un attore internazionale, lavora con Helmut Kautner e due volte con Joseph Losey ma in Italia si ritrova ad accettare – forse anche per motivi economici – due thriller di Stelvio Massi, Cinque donne per l’assassino e il famoso poliziottesco Mark il poliziotto. Il cinema diventa ben presto un vicolo cieco. L’unico regista di un certo nome che lo cerca due volte, a cavallo del nuovo secolo, è Pasquale Squitieri, che condivide per lui l’affiliazione politica alla destra.

La carriera televisiva

Di ben altro spessore è la carriera televisiva di Albertazzi: dopo alcuni sceneggiati di grande successo, il titolo più importante è di gran lunga Jekyll, miniserie che va in onda nell’inverno del 1969 e della quale è anche regista. E forse è questa la parola chiave: “regista”. A teatro e in tv, Albertazzi ambisce – e con risultati importanti – a essere regista di se stesso. Al cinema ci riesce una volta sola, con Gradiva, 1970: un film un po’ cervellotico, la storia di un archeologo ossessionato da una statua femminile che conosce una donna che è letteralmente la “incarnazione” dell’opera.

Distribuito malissimo e destinato a clamoroso insuccesso, Gradiva ha l’unico merito retrospettivo di affidarsi, per un ruolo drammatico e insinuante, a una futura diva: Laura Antonelli, che però sfonderà solo nel 1971 (l’anno dopo) con Gli sposi dell’anno secondo e Il merlo maschio.

Albertazzi, attore sovrano in teatro

Per fortuna c’è il teatro. Che è la prima, e la più importante risposta alla domanda da cui siamo partiti: perché Albertazzi non è diventato un divo del cinema? Perché era un divo in teatro, il mondo dove l’attore è veramente sovrano. Un’altra risposta risiede nella sua natura stessa di interprete: a differenza di Gassman, Albertazzi non aveva il comico nelle sue corde, non sapeva prendersi in giro né mascherarsi da buffone come fece Gassman in La grande guerra o in I soliti ignoti.

Un’altra risposta, ancora, si nasconde forse nell’ascesa di un interprete di 11 anni più giovane: Gian Maria Volonté, che in qualche misura andò a occupare nel cinema italiano la “casella”, la “nicchia” che avrebbe potuto essere di Albertazzi. C’è una splendida intervista, visibile su YouTube, in cui Albertazzi ricorda di avere per certi versi lanciato Volonté chiamandolo a lavorare nello sceneggiato Rai L’idiota, nel 1959: Albertazzi era il principe Myskin e Volonté l’antagonista Rogozin, e il primo analizza in modo molto convincente come quel ruolo abbia improntato di sé i primi personaggi interpretati dal secondo al cinema negli anni successivi, almeno fino a Per un pugno di dollari nel 1964.

Un passaggio di testimone ideale che forse, chissà, ha precluso ad Albertazzi qualche ruolo cinematografico che avrebbe potuto essere suo.

Le idee politiche

A questo punto i soliti maligni potrebbero affermare che Volonté sfondò nel cinema perché era di sinistra mentre Albertazzi fu rifiutato perché era di destra. Non funzionava così: anzi, Volonté ebbe i suoi problemi, per le sue posizioni politiche. In quanto ad Albertazzi, la sua militanza nella repubblica di Salò e le sue successive esternazioni “di destra” non gli impedirono di diventare, giustamente, uno dei più grandi interpreti del nostro teatro. Può darsi che qualche regista non l’abbia voluto in qualche film per questo motivo, ma va detto, a suo onore, che Albertazzi non si è mai lamentato più di tanto.

E sulle sue idee politiche, ha più tardi rilasciato numerose interviste che possiamo riassumere in questa citazione da un pezzo di Rodolfo Di Giammarco uscito su Repubblica il 27 maggio 2007: «Ho aderito alla Repubblica Sociale perché venivo fuori da una famiglia che aveva vissuto il fascismo, e per me e altri era la scoperta di una via socialista anticlericale e contro il re, e sono coscientissimo che, sia quelli che si sono schierati come me, sia quelli che hanno abbracciato un’ideologia partigiana volevano altrettanto sostenere una posizione di dignità, di morale e di fermezza […]. L’identità che man mano m’è venuta fuori è quella di un anarchico di centro». Tutto il resto, direbbe Amleto (uno dei suoi cavalli di battaglia), è silenzio.