Rolando Ravello: “Sarò un premier italiano in Rumours. E ho conquistato Cate Blanchett con una cacio e pepe” (Esclusiva)

In tv con Il clandestino dall'8 aprile per sei serate su Rai1, serie di cui cura la regia, torna attore per un progetto indie hollywoodiano, la storia di un G7 molto molto particolare. In cui è Antonio, un premier "molto lontano dagli stereotipi sugli italiani, un'esperienza incredibile che mi ha convinto che dobbiamo allargare i nostri confini". E poi rivela: "Non torno a recitare più, se non a teatro o per un altro progetto del genere. La regia è il mio futuro". L'intervista di THR Roma

Rolando Ravello è un outsider vero. Che ha conquistato Hollywood, con il film Rumours di Guy Maddin.

Uno che esordisce alla regia con Tutti contro tutti, il racconto del dramma delle case occupate, della lotta tra poveri, restituendoci una commedia ferocissima, che unisce Scola e Ben Stiller, ha il coraggio di chi ama andare in direzione ostinata e contraria.

Attore raffinato e poliedrico, cineasta che ama il genere come il cinema d’autore e sa impastarlo in tutto quello che fa, non ha paura di essere popolare almeno quanto rimane rigoroso, tanto eticamente quanto esteticamente.

A The Hollywood Reporter Roma, con quel sorriso aperto e incredulo, racconta per la prima volta di un sogno diventato realtà. Un film internazionale, con un cast incredibile. In cui lui è uno dei protagonisti. Parliamo di Rumours di Guy Maddin, Evan Johnson and Galen Johnson, un lavoro che farà parlare, e parecchio, di sé. E che ci racconta con la solita sincerità, con la semplicità di chi sa che fare il lavoro che ami, nonostante le difficoltà, è un privilegio. Perché tutto quello che ha avuto dalla vita e dalla carriera, se l’è sudato.

E si vede, si sente.

Rolando Ravello sul set de Il Clandestino, di cui cura la regia

Rolando Ravello sul set de Il Clandestino, di cui cura la regia

Rolando Ravello goes to Hollywood. Ci racconta come ha agganciato Rumours?

Ti dico tutta la verità, quello che un mio collega più furbo non direbbe mai. Mi hanno chiamato dalla mia agenzia e mi hanno detto “guarda, non ci crederai, ma ci stanno, ti stanno offrendo un film con Cate Blanchett”. Così si sono presentati al telefono della mia agenzia. Pensavo a uno scherzo, ho guardato subito il calendario, magari era il primo aprile e non me n’ero accorto.

Il sospetto che ci stessero prendendo in giro era forte, in entrambi, e invece prima arriva la proposta di contratto e poi la telefonata di Guy Maddin, uno di quei registi americani che hanno fatto progetti fighissimi e ipersperimentali, non uno pop e mainstream.

Insomma, era tutto vero. E mi parla per 40 minuti. Tra l’emozione e un inglese da scuola elementare, il mio ovviamente, ho capito un ventesimo di quello che ha detto. Sono solo riuscito a chiedergli l’unica cosa che in quel momento mi ossessionava: perché io?

Perché lei?

Non lo so! Io gli ho pure confessato che potevo citargli una dozzina di colleghi che magari potevano andargli meglio di me. Lui con il suo inglese serratissimo mi spiega, ma appunto per me arriva il buio, non capisco una mazza. Quindi sono andato sul set non sapendo davvero perché fossi stato scelto proprio io.

Poi l’ha scoperto?

Sì. Sul set mi ha rivelato – nel frattempo l’inglese era un po’ migliorato – che la casting canadese aveva visto un reel di cose mie di due minuti e mezzo e si era innamorata del mio lavoro. Lo aveva passato a lui, che non aveva avuto dubbi sullo scegliermi.

Ecco, cosa ci sia in quei 150 secondi o cosa avrà colpito lei – spero di conoscerla presto, per poterle poi fare una statua che metterò a Trevignano vicino a quella signora che piange – io proprio non lo so. Voglio, devo scoprirlo.

Interpreta un premier italiano in un vertice internazionale. Come fece Pierfrancesco Favino – lo so, sembra lo sketch di Boris con Max Bruno sulle fiction su Pacciani e Spadolini – nel film di Roberto Andò Le confessioni.

In realtà lì lui era un ministro dell’Economia, ristabiliamo le gerarchie (ride). Scherzi a parte, con Picchio ci sono stati incroci particolari anche in passato: io ho fatto Pantani, lui Bartali, la prossima volta, chissà, io farò il giovane Craxi.

Anche qui, come in quel film, si gioca di metafora e atmosfere rarefatte. Nella trama si legge di un G7 in cui voi politici vi perdete nei boschi.

Non so quanto posso dire, non voglio metterli in difficoltà, ma credo di poterti rilevare che è un G7 assurdo, più di quanto tu possa immaginare ma anche divertente, dove succede di tutto e con un sottotesto molto spesso che è una critica alla politica e al sistema, a cosa siamo diventati. Un’opera che mischia vari generi e piani di lettura. Il cast è pazzesco: Charles Dance è il presidente statunitense, Cate Blanchett la cancelliera tedesca, Denis Menochet il presidente francese, solo per citarne alcuni: ancora mi chiedo cosa ci faccia io lì in mezzo.

Come posso definirlo senza fare spoiler? Un po’ film politico un po’ slapstick comedy. Ecco: tra Ken Loach e Buster Keaton!

E il suo personaggio, Antonio, chi è?

Uno completamente fuori dagli stereotipi dell’italiano, sia come politico che come uomo. È un folletto, un’anima candida, un tipo strano. È quello che strappa più sorrisi nel film.

Ci sarà qualcosa che non le è piaciuto di quest’esperienza!

No, è stata un’avventura meravigliosa. Non aspettarti pagamenti hollywoodiani, è un progetto super indipendente, però anche lì è successa una cosa bellissima. Oltre alla paga, comunque soddisfacente, mi hanno dato, senza che lo chiedessi, il 4 per cento del film. Un gesto che mi ha colpito, chi lo avrebbe fatto in Italia? Comunque è stato tutto bello, persino i set solo e sempre in notturna e freddissimi – e non avevamo camper, ma tende – perché, appunto, tutto si svolge in questo bosco in cui ci perdiamo al calar del sole.

Cosa le rimane di questo film che non la lascerà più?

Due cose bellissime. Due dediche. La prima dei tre registi – Rumours lo firmano anche i due sceneggiatori Evan e Galen Johnson oltre che Guy Maddin – che mi hanno scritto una mail di ringraziamento in cui mi dicono che il film potevano raccontarlo anche solo con e attraverso gli sguardi, i piani di ascolto del mio personaggio, che dentro i miei occhi c’era il senso profondo dell’opera. “Grazie per il regalo che ci hai fatto, tutto il film si può raccontare con gli occhi di Antonio”, ecco ho ritrovato ora la mail, l’hanno chiusa così.

Non dovevo leggergliela, forse, sembra che mi vanto. Ma è per far capire che persone meravigliose siano.

Ha parlato di due dediche, fuori la seconda.

No, poi davvero sembro un mitomane.

Non smetterò di chiederla finché non cederà.

Ok, è talmente bella che l’ho incorniciata vicino alla foto ufficiale, sul modello di quelle politiche di fine vertice, di tutto il cast. Io normalmente dei progetti che interpreto o dirigo non metto immagini in casa, ma in questo caso ho fatto un’eccezione.

Non tergiversi. Vogliamo la dedica e chi l’ha fatta.

Cate Blanchett, su un cartoncino. E sopra c’era scritto un messaggio meraviglioso che finisce così: “Come ho fatto a vivere tutto questo tempo senza averti conosciuto?”.

Lei è una donna speciale. Dopo pochi giorni sul set ci siamo trovati una sera a bere vino e parlare di cose belle, profonde, per cinque ore. Lei è una impegnata politicamente, stiamo dalla stessa parte, e si spende per ciò in cui crede. Anche per questo film: sono tutti venuti a molto meno di quanto prendono normalmente e nei mercati, con gli altri attori, Rumours gira come “il film con Cate Blanchett”.

La vincitrice di due premi Oscar Cate Blanchett

La vincitrice di due premi Oscar Cate Blanchett

Si è data con generosità per un film profondamente politico, che parla di temi molto attuali, e che se non piacerà danneggerà soprattutto lei.

Sa che si è appena attirato le antipatie di ogni uomo sulla faccia della terra?

Ma no, ho ben presente chi sono, non c’era alcunché di erotico! Ma è vero che si è creata un’atmosfera speciale sul set, mi ha aiutato essere un empatico cazzaro.

Ci spieghi questa definizione affascinante.

Sono uno che adora creare un clima di empatia sul set, da attore e da regista. E per farlo uso l’arma della risata. Dalla battutaccia detta con innocenza fino a calarmi i pantaloni per far esplodere d’ilarità compagni di set e troupe infreddoliti e stanchi.

Lei mi sta dicendo che ha conquistato Cate Blanchett con un atto di esibizionismo?

No, con una cacio e pepe al terzo giorno di riprese. Posso dirlo? Sul set hanno goduto tutti come mandrilli mangiandola e io pure vedendoli mangiare. Ci credi che quando mi arrivano i suoi messaggi whatsapp o le sue chiamate e leggo sullo schermo “Cate Blanchett” mi guardo in giro pensando che qualcuno abbia dimenticato il suo telefonino a casa mia?

Ricordo quel giorno come fosse ieri: la mia compagna Gioia e mio figlio di sette anni Tito erano arrivati il giorno prima con la scorta alimentare da emigranti. Pecorino, pasta di quella buona e con queste e altre provviste il giorno dopo andiamo tutti nell’appartamento di Cate a Budapest – abbiamo girato in Ungheria – e mangiamo, parliamo e ridiamo.

Solo mio figlio Tito era stranamente zitto. Poi dopo mezz’ora si alza, punta il dito verso di lei e fa “Comunque I speak English very much!”. Lei è caduta dalla sedia dal ridere, sembrava un piccolo Verdone in cerca di attenzione.

Come mai sono anni che non la vediamo sul set da attore?

Perché io mi sono fatto la crisi dei 50 anni non come altri portandomi a letto le ventenni, ma me la sono fatta tutta addosso. E a un certo punto ho capito che la domanda che dovevo pormi era non “dove voglio arrivare?” ma “cosa sono disposto a perdere?”.

Che è la vera domanda che tutti noi dovremmo farci, in ogni campo della vita. Vale soprattutto per la nostra generazione: Gaber diceva che la sua ha perso? La nostra non l’hanno quasi mai fatta scendere in campo.

E questa riflessione mi ha resettato, mi ha portato a un nuovo inizio. Perché mi sono reso conto che mi ero stufato, che avevo perso delle motivazioni perché in questi anni sono successe tante cose belle ma anche alcune molto brutte, avevo perso la spinta e per fare qualcosa di bello, per tenere alta, per salvare la qualità di quello che faccio, ero disposto a perdere tutto.

Non credo che sia un caso che il destino mi abbia mandato questo progetto ora che mi sono “risolto”, dopo un grande lavoro fatto su di me, anche doloroso.

Quindi torneremo a vederla come attore?

No. Non lo voglio più fare a meno che non si ripresenti un progetto così, ma non si vince due volte alla lotteria. Io voglio dedicarmi alla regia, è quello che amo in questo momento. A recitare ci voglio tornare, ma solo sui palchi dei teatri, quello sì. E senza farmi la regia, lì.

Insomma essere stato all’altezza di colleghi così bravi le basta?

Per ora mi tengo dentro questa lezione di cinema e di recitazione. Ti faccio un esempio: Alicia Vikander è arrivata la prima volta sul set che stava malissimo. Tosse squassante, 40 di febbre, non conosceva ancora nessuno, un viaggio massacrante.

Li mortacci sua, io nelle sue condizioni non avrei saputo neanche stare in piedi, lei entra in scena e a me casca la mascella. Ci mette tutti a sedere con un “buona la prima” clamoroso. Ed era tutto così, uno più bravo dell’altro.

Cate Blanchett non ne parliamo, Charles Dance che era il nostro decano pareva un ragazzino, un Giallini di 75 anni.

Tu stai là terrorizzato perché ti dicono che gli attori americani e inglesi stanno sul set a concentrarsi per sei ore e poi non è vero niente. Io e lui si rideva e scherzava fino a un secondo prima del ciak.

Basta con tutto questo buonismo. Non le fa rabbia che sono bastati 150 secondi del suo lavoro per conquistare Hollywood e non sono stati sufficienti 30 anni di lavoro per affermarsi come meritava nel suo paese?

No, rabbia no. Gratitudine, perché a partire da Rumours, a me questo lavoro ha comunque dato tanto. E sì, ho sofferto, ma ciò non toglie che il mio sia un viaggio bellissimo. Mi ha dato però la consapevolezza di una cosa, e quella sì mi fa rabbia. Abbiamo insegnato cinema a tutto il mondo, lo dice Tarantino, lo dicono tutti, siamo e sono tutti figli del neorealismo e ci comportiamo come una provincia.

Fuori, soprattutto negli Stati Uniti, hanno fame delle nostre storie, dei nostri talenti, guardiamo oltre i nostri confini, smettiamo di parlarci addosso. Rischiamo. L’Italia si autocensura nelle sue potenzialità.

Ne parlavo recentemente con Paolo Genovese, con cui stiamo scrivendo un film. Vale la pena guardare più largo, toglierci i paraocchi, competere nel campionato dei grandi.

Io per il mio prossimo film da regista, Per sempre Natale, sto provando a fare qualcosa di diverso. La storia è una sorta di Ghost in cui un padre arrestato quando sua figlia era piccola esce di galera e vuole solo recuperare il rapporto con lei. Muore, investito da una moto, proprio quando c’era faticosamente riuscito, lasciandola di nuovo sola per poi tornare due giorni prima del funerale come spettro non visto da lei. Ho questa storia appresso da 10 anni dentro, ora sto cercando una produzione internazionale.

Voglio provare a invertire i fattori, la mappa che seguiamo normalmente per montare un film. Poi ovvio, mi piacerebbe avere Cate Blanchett e Charles Dance nel film, è chiaro!

Mi sa che tocca preparare i fazzoletti.

Vi farò piangere, ma anche ridere.

Come ne Il clandestino? Più lacrime, però direi.

Che ti devo dire, a me piacciono i protagonisti sbagliati, che devono recuperare qualcosa, che si sporcano le mani e soffrono. Quando mi chiedono se c’è un fil rouge in quello che faccio, dico sempre che più che altro cerco di rendere i miei progetti coerenti con ciò che provo e penso.

Faccio sempre tutto con cuore e onestà. Per questo mi piace tanto il mio lavoro, dalle revisioni di sceneggiatura al montaggio. Ma l’attesa a opera finita mi massacra: ora penso solo all’8 aprile, a come andrà, se verrà capito. Per me, ogni volta, il momento in cui sto sul bordo del burrone, davanti al giudizio del pubblico, cercando di capire se cadrò o meno, è massacrante.

Comunque ne Il clandestino tiro fuori l’umanità che mi piace, delle famiglie che magari hanno avuto meno dalla vita, che a me suscitano empatia, questa parola misteriosamente scomparsa nella dialettica creativa e sociale. E poi c’è un Edoardo Leo incredibile, bravissimo.

Rolando Ravello, Paola Lucisano e Edoardo Leo, regista, produttrice e protagonista della serie di Rai1 Il Clandestino

Rolando Ravello, Paola Lucisano e Edoardo Leo, regista, produttrice e protagonista della serie di Rai1 Il Clandestino

Vogliamo dire che lui negli ultimi due o tre anni ha fatto un ulteriore salto di qualità?

Lo conosco come le mie tasche Edoardo, da quando avevamo 18 anni, abbiamo fatto anche un docufestival insieme. Conosco tutti i suoi pregi e i suoi difetti e sì, dobbiamo dirlo.

Sai perché è successo? Perché oltre a essere bravo, ad avere un gran talento, Edoardo è un uomo molto intelligente. E in questo ispettore dei Nocs che lavora probabilmente per i servizi segreti, caduto in disgrazia sa ritrovare, mentre crolla, l’empatia. E ci riesce incontrando in ogni episodio un’etnia diversa, trovando se stesso in altre culture, modi di vivere.

E Edoardo Leo restituisce questo protagonista anche perché si fa contaminare con una bellezza e una forza rare.