Woody Allen, il concerto a Villa Ada e quella sua orchestrina da fine del mondo, divertita e un po’ stonata

Sul palco di una delle rassegne estive musicali più importanti della Capitale il grande regista ha suonato il clarinetto con la sua New Orleans Jazz Band. E dopo qualche minuto sembrava di essere in un nighclub dixieland anni Trenta

È un set cinematografico il palco del festival di Villa Ada sabato 16 settembre 2023. Un anziano signore, di nome Woody Allen, stravaccato su una sedia con la faccia stralunata, i pantaloni color cachi e la camicia bianca d’ordinanza, suona il suo clarinetto come fosse un’ocarina. È un suono acuto, insistente, puntuto, forse lo fa apposta, per schernirci, forse è il suo stile. Accanto a lui altri due attempati strumentisti di grande esperienza, alla tromba e al trombone, costruiscono il suono di un’orchestrina jazz da fine del mondo. Di quelle che suonano imperterrite, magari anche un po’ stonate, mentre tutto intorno sta esplodendo il pianeta.

Siamo in un’altra dimensione, in un altro secolo certamente: “Faremo il jazz di New Orleans, il posto dove è nata tanta musica. Suoneremo per il nostro piacere”, dice l’anziano signore con quella voce che, lo sappiamo ma ci frega sempre, è ovviamente più profonda di quella a cui siamo abituati, la voce di Oreste Lionello. Woody, caschi il mondo, stasera è qui a Roma solo per suonare, dopo l’affollatissima proiezione al cinema Quattro Fontane del suo ultimo film Coup de chance e dopo il passaggio a Venezia fuori concorso, dove è stato fugacemente contestato da un gruppo di Femen per le accuse di molestie sessuali da cui già a suo tempo (era il 1992 e tra lui e Mia Farrow infuriava la battaglia legale per l’affidamento dei figli) è uscito pulito.

Qui attorno, nel pubblico estasiato e diligente, non c’è traccia di polemica, ed è decisamente arduo scorgere su quel palco il seppur minimo accenno di maschilismo tossico mentre una manciata di signori decani del jazz giocano a rimpallarsi gli assoli come fossero nel solito locale fumoso del loro quartiere. La scaletta poi è la solita, consolidata in centinaia di concerti: d’altronde è da quando ha 15 anni che Allen che suona “per il suo piacere”, da autodidatta, sicuramente lo ha fatto per molti anni tutti i lunedì al Michael’s pub di Manhattan con la sua New Orleans Funeral and Ragtime Orchestra e poi al Café Carlyle. Qua non siamo a New York e l’Orchestra è l’ottima New Orleans Jazz Band con Conal Fowkes al pianoforte, Simon Wettenhall alla tromba, Brian Nalepka al basso, Jerry Zigmont al trombone e i giovani Kevin Dorn alla batteria e Josh Dunn al banjo e alla chitarra. E’ dal 1996, dalla prima tournée divenuta il film documentario Wild man blues a firma di Barbara Kopple che Woody Allen se la spassa sui palchi di mezzo mondo con la sua prima grande passione, il jazz delle origini.

Stasera ci vorrebbe del gin, del fumo denso tra i tavoli e il rumoreggiare chiassoso delle cameriere tra un’ordinazione e l’altra, perché siamo chiaramente invitati in un nighclub dixieland anni Trenta, tra soldati in divisa, marinai e gangster. Invece il pubblico è silenziosissimo, attento, e gli occhi sono tutti puntati su Woody Allen, bramosi di una qualsiasi parola, di un qualsiasi gesto che ci riconduca alla nostalgica epifania cinematografica col genio di Manhattan. E invece, niente da fare, ci dovremo accontentare dei brevi assolo fuori sincrono del suo clarinetto-ocarina, e ci sbucceremo le mani dagli applausi, anche se non saremmo troppo sicuri di onorare il virtuosismo del musicista o la semplice presenza del gigante del cinema.

Se qualcuno poi sparasse sul pianista sarebbe un gran peccato, perché è uno dei pezzi forti della band, e anche nel canto ci sa fare. Sicuramente meglio del trombettista Wettenhall quando si lancia con grande fervore in cantati stentorei. D’altronde siamo qui per divertirci, ha detto Woody, uno che conta tra le sue frasi immarcescibili anche: “non ho idea di cosa sto facendo ma l’incompetenza non mi ha mai impedito di buttarmi con entusiasmo”.

Dopo la prima mezz’ora l’atmosfera però comincia a scaldarsi, i giri aumentano e la giovane sezione ritmica in combutta col chitarrista-suonatore di banjo ci dà giù forte; mancano solo le scazzottate sotto il palco, dove invece il pubblico sembra quello di un concerto di musica concreta, inchiodato sulle sedie (d’altronde era vietato alzarsi) in religioso silenzio di fronte al simulacro che nel frattempo fa sberleffi, punzecchia, distrae col clarinetto stridulo. In totale sintonia con Woody Allen, gli altri due “anziani della band” al suo fianco, trombettista e trombonista, gigioneggiano e ci guardano sornioni, consapevoli che la vita sia un tragicomico nonsense e che un concerto, seppur del proprio idolo, non faccia certo eccezione.