Tedua, o di quando un palazzetto diventa l’Inferno. Cronaca del Divina Commedia Tour

Una tournée, quella del rapper di Cogoleto, nata dall’album omonimo uscito quest’estate, concepita come un viaggio itinerante nell’universo dantesco nella sua infinita moltitudine

“Al mio segnale scatenate l’inferno”, avverte una voce altisonante dagli amplificatori del Palalottomatica di Roma. La scenografia si colora di rosso e il pavimento sprigiona fiamme. Tedua varca l’ingresso di una porta per gli inferi. E all’improvviso, l’Inferno prende il via per davvero.

È la terza tappa del Divina Commedia Tour, partito da Jesolo e pronto a passare ancora per Roma, Milano e Genova. Una tournée nata dall’album omonimo uscito quest’estate, concepita come un viaggio itinerante nell’universo dantesco nella sua infinita moltitudine.

Che il rapper fosse un artista visionario e volenteroso di esprimersi ben oltre la sola musica era chiaro già dai suoi precedenti lavori. Prima tra tutte, la collaborazione con David Lachapelle – iniziata proprio con la copertina dell’album La Divina Commedia, curata dal fotografo statunitense, e culminata con la raffigurazione del rapper come un Cristo in chiave pop per la mostra Stations of the Cross. Ma il live rende ancor più evidente la necessità di Tedua di rinnovare il panorama rap e trap italiano, che punta ad arricchire in ogni modo possibile nelle due ore ininterrotte di esibizione e sperimentazione.

Il pubblico viene introdotto nella città dolente con Intro La Divina Commedia, un brano preparatorio che dà definitivamente il via al live. Dall’inferno celeste si passa velocemente a quello urbano, e lava, rocce e fuoco conducono al girone di una Milano dannata, raccontata dalle barre di Paradiso Artificiale, elevate da un brutale skit di Noyz Narcos e dal feat di KidYugi e Baby Gang.

Poi l’aura infernale prosegue ancora tra “le disperate grida dei dannati” di Red Light. E poi le barre descrittive di Soffierà. E “Il vento sulle colpe che porterà via le ombre”, che sembra instradare il viaggiatore e la sua audience verso una sincerità nuova, che culmina con la malinconica outro di Sara non piangere di Pino Daniele.

La scenografia e la grafica, simili a un dipinto di William Blake, completano lo spettacolo, scevro da troppe interazioni col pubblico. Gli inferi si trasformano rapidamente in un’atmosfera più consapevole, con un cielo reso pian piano più nitido e chiaro anche grazie a un tributo a Whitney Houston (con una I will always love you eseguita dalla corista Domitilla Abeasis).

Il valore del riscatto

Il Divina Commedia Tour

Il Divina Commedia Tour

Indistintamente rispetto al cambiare dell’atmosfera, però, ciò che ritorna continuamente nelle parole e nelle barre del rapper è la dimensione del riscatto. Quella gratitudine per le origini umili, per gli amici di una vita e per la street credibility – pilastro aureo del gioco del rap – che non si abbandona mai. Neanche (tantomeno) quando si vantano sold-out in praticamente tutti i palazzetti d’Italia.

Migliaia di persone cantano all’unisono, rima per rima, pregando di proteggere quei fratelli figli unici, che il cantante non scorda. Quelli della piazzetta rimasti indietro, onesti lavoratori, sottopagati. Un senso di comunità che risuona fortissimo, dalla trap de La legge del più forte al testamento in musica di Lo-Fi for U. Ringrazia la nuova scuola rap genovese, ma anche gli amici di Milano Est e Ovest. Origini concrete, che vanno preservate e mai dimenticate, a partire dai legami affettivi. Introduce così Rkomi, raccontando dei Capodanni in compagnia e dei tre anni passati alle case popolari insieme, con “la carta igienica usata come fazzoletti e i fazzoletti come carta igienica”. I due duettano su Anime libere e Colori, congedandosi con un abbraccio soddisfatto, quasi di rivalsa sociale.

Oltre a quello col rapper milanese, una decina di brani featuring con artisti della scena. Qualche barra tagliata, qualche altra riprodotta live dallo stesso Tedua, altre ancora donate al pubblico che le riempie prontamente delle parti mancanti. Come avviene con il singolo Hoe, hit da club record di ascolti, nato originariamente con la collaborazione di Sfera Ebbasta.

Interpretati e sviscerati nel profondo tutti i brani dell’ultimo album, Tedua non fa mancare i pezzi vecchi per i fan di vecchia data. A partire da 3 chances, che dedica a “tutti quelli che me l’hanno chiesta in dm su Instagram” e continuando con vari pezzi dal lavoro in studio precedente, Orange County California. Tra le varie sezioni del lungo live, poi, due intermezzi sotto forma di mash-up, con immagini e brani per ripercorrere e celebrare anche gli esordi. Per ribadire ulteriormente l’idea di quell’iter sudato verso il successo – dalla strada alla fama – su cui si basa gran parte del movimento urban. Partono, mixate tra loro, No snitch freestyle e Pensa se piove – rmx.

Non mancano i riferimenti alla settima arte, a partire dagli incubi che “li ricordo a menadito, Potrei scriverli, poi darli a Sorrentino”, passando per il cinema italiano che “spero torni al successo degli albori” in Teatro alla scala. Fino alla citazione a Pasolini – secondo cui “Il successo è l’altra faccia della persecuzione” – in chiusura del brano Purple.

Il palco è cangiante nei colori e nelle grafiche, e a mano a mano si trasforma, perfettamente in sincrono con le sonorità delle canzoni e con le sensazioni che queste trapelano. E quel paradiso che al principio sembrava tanto lontano e inconciliabile (forse) si fa sempre più tangibile ed evidente. Con La verità – tra i cori celesti dei Bnkr44 e la rivisitazione in chiave rap melodica di Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli – il rapper di Cogoleto arriva alla conclusione di un confine molto labile tra i vari mondi danteschi, perché “Inferno e paradiso sono intorno a noi. Verità o bugia, non sai più cosa vuoi”.

La sezione finale

Il performer al fine di tutt’ i disii s’appropinqua, e volge all’ultima sezione del concerto – quella delle hit più riconoscibili e conosciute -, introdotta da Lingerie del 2016, che definisce la traccia che ha fatto la storia della trap in Italia.

Quello di Tedua, però. non è un concerto trap. E non è neanche un concerto rap. È un’esibizione live a tutto tondo, basata tanto sulla finezza esecutiva quanto sulla percezione ottica dello spettatore. Il rapper viene accompagnato su tutti i brani da una band e un coro “lo avete mai visto un concerto rap in Italia con dei coristi?”, chiede soddisfatto al pubblico. E in effetti, il live s’ispira molto ai colleghi d’oltreoceano come Kanye West o Frank Ocean.

Quaranta brani in scaletta, tra angeli e demoni, nuvole e inferi. Paradiso, inferno e purgatorio forse hanno una suddivisione sempre meno netta, e Tedua è il Caronte dei giorni nostri. Traghetta le anime degli spettatori da una cantica all’altra, legittimando anche l’immobilità del limbo. Convincendoci che forse, data la densità di brani e di scenografie, a questo punto, non ci sono scambi o interazioni che tengano. È la musica che move il sole e l’altre stelle.