Sarà in scena fino al 30 marzo all’Old Vic, uno dei teatri storici di Londra, Just for One Day, un musical che ripercorre la storia del più grande evento musicale degli ultimi quarant’anni, il Live Aid. Il 13 luglio del 1985, sul palco del Wembley Stadium nella capitale britannica, e dall’altra parte dell’oceano a Philadelphia, al J.F.K. Stadium, tutto il meglio della musica mondiale si diede appuntamento per una causa comune, quella di raccogliere fondi per aiutare le popolazioni africane colpite dalla carestia.
Fu una mobilitazione straordinaria, partita dalla volontà di un solo uomo. Bob Geldof, leader dei The Boomtown Rats, band post punk new wave irlandese che nel 1984 poteva contare nel proprio repertorio su un paio di hit di grande successo, compresa quella canzone che sarebbe diventata un inno dei lavoratori di tutto il mondo, I Don’t Like Mondays, in realtà ispirata alla storia vera di un’adolescente che nel 1979 fece una strage di studenti nella sua scuola di San Diego. Geldof, fondatore e frontman dei Rats, era stato anche l’alter ego di Roger Waters in Pink Floyd – The Wall, il film di Alan Parker (che non ha mai smesso di maledire la decisione di girarlo) tratto dall’opera rock omonima della band.
Insomma, Mr Geldof conduceva la tranquilla vita della rockstar quando, il 23 ottobre del 1984, la sua vita cambiò per sempre. La BBC mise in onda un reportage curato dal giornalista Michael Buerk che commentava le potentissime immagini riprese dal suo operatore Mohammed Amin che documentavano la tragedia umanitaria che stava accadendo in Etiopia, terra colpita da una carestia senza precedenti.
Quel servizio, che fece il giro del mondo e che ancora oggi è considerato uno dei pezzi giornalistici più importanti di sempre, che ha cambiato radicalmente il concetto stesso di giornalismo televisivo, fece scattare qualcosa in Bob e nell’allora sua compagna (si sarebbe sposati nel 1986) Paula Yates, giornalista musicale di successo e tragica protagonista di una vita che meriterebbe un film tutto suo (morta di overdose nel 2000, dopo essere sopravvissuta a quella di Michael Hutchence, il leader degli INXS con cui ebbe una relazione di nove anni e un figlia, Tiger Lily).
Volevano fare qualcosa per aiutare ma anche per sensibilizzare l’opinione pubblica, perché da soli non potevano certo cambiare il mondo. E non lo hanno fatto, ma certamente qualcosa più di altre persone, anche molto più importanti, hanno conseguito.
È partito tutto da qui e lo racconta molto bene Just for One Day, musical costellato da molte delle canzoni che poi, quel 13 luglio 1985, hanno animato un evento rimasto indelebile soprattutto per chi lo ha vissuto in prima persona, nei due stadi, ma anche in televisione, per 16 ore consecutive, senza staccare mai, come chi scrive, per esempio, insieme ad altri due miliardi di spettatori. E come gran parte della platea che affolla ogni sera l’Old Vic, un sold out dietro l’altro, che in quei mesi frenetici tra il 1984 e il 1985 c’era, adolescente o poco più, testimone insieme a tanti altri coetanei di un’epopea che oggi sembra quasi banale, ma che allora fu un’impresa titanica, oltre che una corsa contro il tempo.
John O’Farrell, l’autore di Just for One Day (il titolo è naturalmente mutuato da Heroes di David Bowie), è ben noto nel West End londinese per avere scritto l’adattamento in forma musicale di Mrs Doubtfire, ma è anche uno scrittore di grande successo. La sua abilità narrativa traspare chiaramente in questa pièce che mantiene un livello emotivo altissimo per tutte le sue due ore e dieci, uno show che fa ridere, travolge e commuove.
O’Farrell colpisce ai fianchi, senza mancare di sottolineare che quello che è successo 40 anni fa non ha mai smesso di accadere, fino a oggi, in un mondo segnato da guerre in ogni dove. Ma al contempo spinge anche sull’acceleratore della memoria e del revival, grazie alla musica naturalmente, ma anche ricordando che una volta esisteva un mondo senza smartphone e internet, in cui la musica si sentiva alla radio e si andava nei negozi per comprare i dischi. Un mondo in cui l’idea di trasmettere in diretta mondiale un evento gigantesco come il Live Aid rasentava la follia, organizzato oltretutto in meno di quaranta giorni.
Just for One Day è uno di quegli show che tutti dovrebbero vedere, soprattutto i giovani nativi digitali, e ce n’erano molti per fortuna, scolaresche intere portate ad assistere a una lezione di storia dal vivo. A raccontare quei folli nove mesi Bob Geldof, sboccato e irascibile, interpretato magnificamente da Craige Els, attore che sulla scena teatrale londinese dice la sua (e che può contare anche su un curriculum cinematografico di rispetto, da The Imitation Game ad Anna Karenina), e Suzanne, che nel 1985 era sul prato di Wembley e che da allora ha messo la sua vita al servizio dei più deboli (Jackie Clune, Billy Elliot e The Rocky Horror Show sono già un biglietto da visita sufficiente). Attorno a loro una compagnia di cantanti e ballerini di alto livello, ma d’altronde è la normalità nelle produzioni teatrali britanniche, e una band che accompagna dal vivo tutto lo spettacolo.
Dalla telefonata all’amico Midge Ure, frontman degli Ultravox con cui Geldof scrisse Do They Know It’s Christmas, al blackout audio quando alla fine del concerto londinese salì sul palco Paul McCartney. In mezzo Quincy Jones e We are the World, 80 artisti che si alternano su due palchi, i Queen che fanno la più grande performance dal vivo di tutti i tempi, oltre a praticamente tutte le star dell’epoca, da Bowie a McCartney, passando dagli U2 agli Spandau Ballet.
È tutto da vedere, ascoltare, provare Just for One Day, e gustosissimi sono anche i momenti con una divertentissima Margaret Thatcher (una contraddizione in termini, fa ridere già così), per ricordare agli inglesi e oltre che la Lady di Ferro aveva tra i suoi cavalli di battaglia la tassazione sugli introiti alle fondazioni di beneficenza. Fu una delle grandi vittorie politiche di Bob Geldof, che trattò personalmente con la signora premier per far abolire la misura fiscale.
Come poi andarono davvero le cose, davanti e dietro le quinte, lo sanno solo i diretti interessati, ma si sa, è sempre meglio raccontare la leggenda. Quello sui cui però maggiormente fa riflettere questo bello show è che questi quarant’anni sono passati e nulla è cambiato. Uomini, donne e bambini continuano a morire di fame anche in questo modernissimo 2024. Nel settembre del 2023 l’Unhcr ha stimato che 114 milioni sono gli esseri umani nel mondo costretti a lasciare le proprie case a causa di guerre e condizioni ambientali divenute insostenibili a causa del riscaldamento globale. In questo preciso istante sono in corso ventisette conflitti bellici nel mondo. E poi ci si chiede ancora perché non ci piacciono i lunedì.
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