Sessant’anni di Whitney Houston: la triste parabola di una donna sopraffatta dal successo

La sua turbolenta vita è stata soggetto di un documentario firmato dal regista premio Oscar Kevin MacDonald e presentato a Cannes nel 2018. La carriera della cantante viene ricostruita come un collage dalle testimonianze e dai ricordi di amici, parenti e colleghi

Fama, bellezza e denaro, ma anche solitudine, irrisolutezza e paura. Tutto questo è Whitney Houston, che oggi, 9 agosto 2023, avrebbe compiuto 60 anni.

La voce migliore dello scorso secolo: un’estensione da tre ottavi che la rese la donna dei record. La prima a scalare la Billboard Hot 100 statunitense, rimanendo in prima posizione per quarantasei settimane (la supererà di una settimana solo Taylor Swift nel 2020). Un talento in grado di solcare senza difficoltà vari decenni: aderente alle tendenze dance degli anni Ottanta con I wanna dance with somebody (Who loves me), in grado di consacrarsi definitivamente con le ballad degli anni Novanta come I have nothing e perfettamente attuale con l’R&B e l’hip-hop di inizio Duemila con One of those days. Houston fa della musica il suo credo, e rivoluziona totalmente le sorti del pop – soul. La sua, però, è una parabola in tragica discesa.

Whitney dagli occhi di Kevin MacDonald

La turbolenta vita di Whitney è stata soggetto di un documentario firmato dal premio Oscar Kevin MacDonald e presentato al Festival di Cannes nel 2018. Il film inizia con le note di How will I know – singolo del 1986 estratto dal suo album di debutto – e Whitney balla energica, mentre sullo sfondo si alternano immagini d’epoca. Sound dance, toni fluo e musiche orecchiabili, diventate emblema degli sfavillanti anni Ottanta, si alternano con le immagini dei carri armati e delle esplosioni, dell’allora presidente Ronald Reagan e delle campagne sull’Aids, dei primi accenni di anni Novanta.

E ancora video musicali, esibizioni live, foto esclusive e apparizioni televisive (prima tra tutte la cruda intervista con Diane Sawyer, in cui la giornalista rese pubbliche le dipendenze della star), con il collage di testimonianze e ricordi di amici, parenti e colleghi a costruire un’alternanza crudele di momenti e colori: il mondo che gira imperterrito e l’esegesi di questa stella, così brillante e così predestinata a un rapido esaurimento.

Gli esordi

Houston cresce in una famiglia di donne d’arte. Figlia della cantante soul Cissy Houston, componente del gruppo vocalist The Sweet Inspirations, che la instrada alla musica, e cugina della pop star anni Settanta Dionne Warwick, Whitney sperimenta da bambina la sua incredibile vocalità, esibendosi nel coro gospel locale di Newark. La celebrità è di casa, così come lo sono certe omertose regole della popolarità, che impongono a Whitney di tacere di fronte agli abusi sessuali perpetrati dalla cugina Dee Dee Warwick – sorella della star Dionne. Abusi rimossi e nascosti per una vita intera, considerati dagli affetti di Whitney la causa scatenante della tragica evoluzione della sua biografia.

Unico faro nelle acque tempestose dello show business fu il rapporto autentico, forse l’unico, con l’amica, assistente (e probabilmente anche compagna di vita) Robin Crawford.

Nel 1992, a 29 anni, Houston si sposa con il collega cantante Bobby Brown, e le complicazioni prendono definitivamente il sopravvento. Anoressia, bulimia, droga, farmaci e cause legali. Un matrimonio fatto di tradimenti, dipendenze e tanta violenza, ennesima tappa di una spirale autodistruttiva che porterà la cantante alla fine. La prevedibile fine del matrimonio nel 2006 disancora del tutto Whitney. Antepone la droga alla musica, la solitudine alla famiglia, perdendo il controllo di se stessa: “Mi piace, e voglio farlo finché non sentirò la necessità di fermarmi” dichiarò alla sua assistente in merito alla dipendenza da crack e cocaina.

La sperimentazione nel cinema

Sempre nel 1992, Whitney consolida il suo talento anche sul grande schermo, tentando di evadere ulteriormente da quella realtà asfissiante che la circondava. Nel film Guardia del corpo, in cui recita con Kevin Costner, interpreta il ruolo – quasi autobiografico – di Rachel Marron, una pop star la cui incolumità è protetta da un bodyguard personale. Finisce così per occupare una posizione di rilievo anche nel cinema, stravolgendo le dinamiche hollywoodiane secondo cui solo una diva “bianca” avrebbe potuto recitare da protagonista in un progetto del genere.

Proprio dalla colonna sonora di quel film nacque I will always love you, cover dell’omonimo brano di Dolly Parton, reso da Houston ben più famoso dell’originale. La sua versione diventa il singolo più venduto in assoluto da una cantante femminile (oltre 22 milioni di copie), il brano d’amore per eccellenza, rappresentativo e trainante di tutta l’ondata successiva di romantiche ballad r&b.

L’impegno sociale

Nel 1994 Whitney – sempre più spenta e indebolita dalle dipendenze e dal rapporto di coppia tossico col marito – è la prima grande artista a cantare nell’Africa post apartheid. Nelson Mandela la abbraccia, e i suoi straordinari acuti commuovono un pubblico che la riconosce, la sente vicina a sé.

“So com’è la mia pelle. Sono cresciuta in una comunità nera con persone di colore”. Houston ha sempre cercato di preservare la sua identità afroamericana, pur venendo spesso condannata dalla sua stessa comunità. Fischiata alla premiazione dei Soul Train Awards del 1988, da un pubblico che la percepiva non allineata con la tradizione della musica black, Whitney è in mezzo a due fuochi. Lotta contro il razzismo interiorizzato degli Stati Uniti e cerca di preservare le proprie origini – forse l’unico elemento saldo e sicuro in una vita troppo turbolenta.

La fine tragica e circolare

Poi l’epilogo. Un destino crudele e per qualche verso circolare, quell’infausto 11 febbraio 2012. Muore per annegamento dovuto a un’intossicazione da mix di antidepressivi, difenidramina, alprazolam e cannabis, in una vasca del Beverly Hills Hotel, lo sfarzoso albergo delle star – emblema di quello stesso ambiente da cui Whitney è stata sopraffatta, e sul quale non si è mai saputa imporre. Lo stesso destino colpirà sua figlia, Bobbi Brown, morta per sorti analoghe a soli 22 anni, nel 2015, dopo sei mesi di coma dovuti a un cocktail di cocaina e medicinali. Il culmine di un fallimento. Dell’artista, della donna. Della madre.