Il 2023 è stato l’anno peggiore di Hollywood? L’eterna domanda dell’ultimo quarto di secolo. Anzi, di sempre

Tra il botteghino che non si è ancora ripreso, la fine del picco televisivo, licenziamenti ovunque, l’IA che minaccia il lavoro creativo e le produzioni che si sono dovute fermare, diciamo che come minimo il 2023 non è stato una passeggiata. Ma c'è stato (molto) di peggio. Quel maledetto 1948, per esempio

La crisi di Hollywood, l’eterna minaccia. Uno dei giochi di società preferiti dai cinefili è quello di scegliere l’anno migliore di Hollywood e poi argomentare. La risposta più ovvia – il 1939, l’Anno d’Oro certificato – ottiene sempre il maggior numero di voti, ma alcuni eccentrici sostengono delle tesi meno scontate. La scelta di Peter Bogdanovich era il 1928, l’anno che ha visto l’apoteosi dell’estetica del cinema muto prima che il suono sincronizzato rovinasse tutto. Molti hanno scelto il 1974, anno di Chinatown, Il Padrino – Parte II, La conversazione e altri film. Il critico dei media Brian Raftery ha dichiarato con enfasi il 1999 “il miglior anno del cinema di sempre” nel libro Best. Movie. Year. Ever. (scritto proprio così). Nessun anno successivo al 1999 ottiene voti, se non negli angoli più stravaganti di Internet.

Ma che dire dell’anno peggiore di Hollywood, il suo annus horribilis maximus? E quali sono i criteri per misurare la profondità del disastro? La pessima qualità dei film? I margini di profitto degli studios? Il livello di disprezzo che viene rivolto a Hollywood per essere, a seconda dei momenti, la Sodoma del Pacifico, la Mosca dell’Ovest o la Centrale dei Woke?

La domanda sull’anno peggiore sorge per via delle voci di corridoio di fine anno secondo cui il 2023 potrebbe essere in lizza. Il doppio sciopero degli sceneggiatori (148 giorni) e degli attori (118 giorni) ha bloccato la produzione e ha lasciato quel retrogusto amaro che rende difficile baciarsi e fare pace. I titoli di punta del MCU e della Disney – a pensarci bene, si tratta dello stesso gruppo – sono finiti con le ossa rotte dopo che una serie di aspiranti blockbuster ha fatto flop. La Warner Bros. è sembrata più interessata alle detrazioni fiscali che a far uscire film.

Naturalmente, la presenza più preoccupante è stata quella dell’IA, una minaccia alla componente umana del talento che potrebbe giustificare il più apocalittico degli allarmi.

D’altra parte (e questo è un gioco da giocare almeno in due), il 2023 è stato un grande anno per il cinema di Hollywood. Gli spettatori sono accorsi in massa per la scintillante magia al femminile di Barbie e Taylor Swift: The Eras Tour. Il tesoro nazionale Martin Scorsese ha realizzato un lavoro di qualità sul grande schermo (Killers of the Flower Moon) e sul piccolissimo schermo (TikTok).

Un ciclo di intelligenti biografie – Oppenheimer, Priscilla, Ferrari, Napoleon e Maestro – ha offerto un’alternativa sostanziosa a una serie di remake e sequel banali. Un anno in cui un film di tre ore sulle autorizzazioni di sicurezza ai tempi della Guerra Fredda incassa un miliardo di dollari al botteghino globale non può essere considerato un fallimento totale.

Le persone felici di vedere il 2023 nello specchietto retrovisore si uniscono a una lunga serie di pessimisti hollywoodiani che traggono una perversa soddisfazione dalle previsioni di un’imminente catastrofe. La fine, a quanto pare, è sempre più vicina per l’industria cinematografica. Quindi, i candidati al Peggior anno del cinema di sempre sono numerosi e la concorrenza è agguerrita. A volte i produttori non sapevano quanto gli stesse andando bene in realtà; a volte facevano finta che andasse tutto bene.

Come nasce il pessimismo cosmico di Hollywood?

Il 1921 è stato il primo anno in cui Hollywood si è trovata davvero in una tagliola politico-culturale. Proprio mentre gli ingranaggi della macchina dello studio system classico iniziavano a girare, l’industria fu colpita da una serie di scandali che sconvolsero i guardiani della morale di stampo vittoriano: divorzi, overdose, omicidi (nel 1922, quello del regista William Desmond Taylor, colpito al cuore, secondo i tabloid, da una “donna vendicativa”) e, soprattutto, i tre sensazionali processi (1921-22) del famoso comico Roscoe “Fatty” Arbuckle, accusato di omicidio colposo e stupro per la morte dell’attrice Virginia Rappe durante un weekend di bagordi a San Francisco.

Gli uomini di chiesa e i circoli femminili si lamentarono dei parassiti che avevano “infestato la colonia cinematografica di Hollywood” e chiesero un’epurazione degli “uomini e delle donne indesiderabili”. Nel 1921, trentasei Stati stavano approvando o prendendo in considerazione leggi censorie a livello statale per “eliminare le allusioni e l’immoralità dallo schermo”. “Scacciate le carogne” e “estirpate la feccia”, chiedeva Billboard, e il consiglio veniva da una fonte amica.

Per limitare i danni, i magnati formarono un cartello, la Motion Picture Producers and Distributors of America, e nominarono un uomo di facciata per parare le critiche, l’anziano membro della Chiesa presbiteriana Will H. Hays, dotato di astuzia politica, già direttore generale delle Poste per il presidente Warren G. Harding. Il 5 luglio 1922, in uno dei suoi primi atti ufficiali, Hays si presentò davanti a 5.000 membri della non meglio precisata General Federation of Women’s Clubs e assicurò alle signore che avrebbe innalzato “gli standard morali e artistici” sia della città di Hollywood che dei suoi film. Istituì un elenco di “cose non fare e a cui fare attenzione” per guidare i contenuti dei film (che alla fine fu formalizzato e ampliato con il Production Code Administration nel 1934) e cercò di far cessare la baldoria fuori orario inserendo clausole di moralità nei contratti degli attori.

“L’attore [l’attrice] si impegna a comportarsi con il dovuto riguardo alle convenzioni e alla morale pubblica e si impegna a non commettere nulla che tenda a degradarlo nella società o a esporlo all’odio, al disprezzo, al disprezzo o al ridicolo pubblico”. Per i successivi ventitré anni, Hays tenne a bada i censori politici e i responsabili degli studios tennero gli scandali lontani dai titoli dei giornali.

Questo uno-due – in cui l’industria cinematografica viene scossa da uno shock al sistema, seguito da un adattamento che non solo affronta la sfida, ma la trasforma in un vantaggio – ha creato un modello per la gestione delle crisi di Hollywood per sempre.

Come fare un bilancio di una crisi di Hollywood

In qualsiasi bilancio di fine anno dell’industria cinematografica, tuttavia, il dato che alla fine bisogna guardare in un anno negativo è sempre quello del margine di profitto, misurato in termini di presenze settimanali e di incassi al botteghino. Non sorprende quindi che i primi anni della Grande Depressione – tutti, nessuno escluso – siano stati classificati dall’industria come l’anno peggiore in assoluto, fino a quello successivo. “Il 1931 ha la particolarità di essere l’anno peggiore (dal punto di vista finanziario) nella storia dell’industria cinematografica”, dichiarò il critico cinematografico e futuro sceneggiatore Robert Sherwood sul New York Evening Post, un superlativo presto superato dal 1932 (“l’anno più malato dell’industria”) e dal 1933 (“un anno da dimenticare”). Anche Will Hays fu colpito duramente, dovendo sopportare una riduzione del 60% dello stipendio da 600.000 a 240.000 dollari l’anno. La situazione si risollevò nel 1934, ma il ricordo della cascata di anni peggiori mise in prospettiva le delusioni degli anni futuri per la prima generazione di magnati.

Guardando indietro al 1931, Sherwood si è sbilanciato e ha notato che l’anno si è anche distinto per film di gangster spiritosi (Piccolo Cesare e Nemico pubblico), film a tema giornalismo, fitti di dialoghi veloci (The Front Page e Five Star Final) e il film muto di Charles Chaplin, Luci della città. Come Orson Welles ricorda a Joseph Cotten ne Il terzo uomo (1949), periodi inquieti possono alimentare rinascite artistiche, mentre la serena prosperità produce solo orologi a cucù.

A parte i soldi, in certi anni Hollywood si è trovata semplicemente in un periodo di depressione. Il libro di Catherine Jurca, ironicamente intitolato Hollywood 1938: Motion Pictures’ Greatest Year, pubblicato nel 2012, racconta quello che all’epoca sembrò un anno terribile, il 1937, così terribile che l’industria orchestrò un massiccio rinnovamento nel 1938 per ritrovare il suo ritmo.

L’industria sentiva di “aver perso il contatto con il pubblico”, scrive Jurca, e un “pubblico irato e disgustato si allontanava dal cinema”. Cioè, se si considerano gli standard del 1937: nel 1937 le presenze erano ben 12.000.000 al giorno o 83.000.000 alla settimana.

Per riaccendere l’amore con il pubblico perduto, tutti i principali studios collaborarono a una campagna senza precedenti per rendere i film di nuovo imperdibili. Con lo slogan “Motion Pictures’ Greatest Year”, si puntò su una serie di produzioni “superspeciali” che si rivelarono non così speciali, come i pomposi drammi in costume Maria Antonietta e Il grande valzer (per quest’ultimo, la MGM lanciò la campagna pubblicitaria “bring back the waltz” che non ebbe alcuna risonanza tra i fan di Benny Goodman e Duke Ellington).

“Un anno mediocre era stato dichiarato per decreto come il migliore di sempre, ma alla fine né la stampa né il pubblico erano convinti”, osserva Jurca. Se solo l’industria non avesse corso troppo, nel 1939 lo slogan sarebbe stato una pubblicità veritiera.

Il grande cinema della grande guerra

Gli anni della guerra furono così spettacolarmente positivi che nemmeno il più pessimista dei pronosticatori riuscì a scorgere una nube scura. Per Hollywood, il passaggio più micidiale del ventesimo secolo significava tempi di boom. “Al giorno d’oggi si può aprire una scatola di sardine e c’è la fila per entrare”, scriveva Variety nel 1943.

L’ottimismo non durò a lungo. Nel 1946, l’anno in cui produsse I migliori anni della nostra vita, Sam Goldwyn lamentò che Hollywood “è rimasta a secco di idee”. In realtà, le idee c’erano, ma il pubblico veniva sottratto da un rivale da salotto che, anno dopo anno, faceva schizzare il grafico delle presenze settimanali sempre più in basso.

La rivoluzione della New Hollywood

A volte nemmeno i soldi riescono a far sembrare un anno positivo. Il 1967 è stato “un anno di spettacolare ripresa”, aveva dichiarato il New York Times, ma il cambiamento del ruolo di Hollywood nella vita americana aveva lasciato ai produttori cinematografici veterani la vertiginosa sensazione che il business del cinema fosse ormai un affare da giovani. In Pictures at a Revolution: Five Movies and the Birth of the New Hollywood, Mark Harris ha registrato gli sconvolgimenti sismici del 1967. I titoli dei giornali recitavano “Nuove leve vs. magnati”, con l’esito della lotta scontato dopo l’arrivo sugli schermi di Gangster Story e Il laureato. “Sembrava che le regole fossero state riscritte da capo”, scrive Harris. “Warren Beatty, che sembrava una star del cinema, era diventato un produttore. Dustin Hoffman, che sembrava un produttore, era diventato una star del cinema”.

Gli anni successivi hanno generato la loro parte di tumulto trasformativo a Hollywood (VHS, DVD, canali via cavo, ecc.), ma l’isteria si placa nel momento in cui l’industria capisce come sfruttare la minacciosa concorrenza come nuovo flusso di entrate. La principale eccezione, ovviamente, non è stata l’introduzione di una piattaforma di intrattenimento rivale, ma la peste che ha letteralmente chiuso i cinema e limitato la produzione nel 2020. Chiunque pensi che il 2023 sia stato un anno negativo ha la memoria molto corta.

Ecco il vero annus horribilis, altro che il 2023

Visto che lo state chiedendo, il mio candidato per l’annus horribilis maximus di Hollywood è il 1948, un anno che ha messo l’industria k.o. con tre colpi: tecnologico, economico e politico. Le prime avvisaglie della crisi si ebbero il martedì sera, quando gli esercenti dell’area di New York cominciarono a notare una correlazione statisticamente terrificante tra le sale vuote e il Texaco Star Theatre della NBC, uno spettacolo di varietà con un clown di vaudeville fino ad allora sconosciuto di nome Milton Berle.

“Se abbiamo un bel film da mostrare ai nostri clienti il martedì sera, non sappiamo nemmeno se Berle è vivo”, scherzava l’esercente Walter Reade Jr, in modalità “qui non c’è niente da vedere”. Non è stato profetico.

1948, la Corte Suprema “bombarda” Hollywood, è crisi (fino al 2020)

Le notizie peggiorarono. Il 3 maggio 1948, la resa dei conti a lungo attesa arrivò quando la Corte Suprema emise il decreto Paramount, che stabiliva che il sistema integrato verticalmente, in base al quale la stessa entità di studio possedeva i mezzi di produzione, distribuzione e proiezione, era un monopolio che limitava il commercio (il Dipartimento di Giustizia aveva intentato la causa per la prima volta nel 1938, un altro motivo per cui non è stato l’anno migliore del cinema). L’ex-giudice della Corte Suprema James F. Byrnes aveva difeso la causa degli studios, sostenendo che l’industria cinematografica era “con le spalle al muro e in lotta per rimanere in vita”. I tribunali e il Dipartimento di Giustizia avevano ordinato il “divorzio” tra produzione e proiezione.

A The Hollywood Reporter, il redattore-editore Billy Wilkerson aveva lanciato un avvertimento che si era rivelato preveggente. “Il divorzio dalle sale cambierà tutti i settori del cinema”, aveva dichiarato. “Causerà un’intera rivoluzione commerciale all’interno della nostra industria”. Il decantato “genio del sistema” – quello che i francesi chiamavano il controllo di qualità della fabbrica che era il cinema classico di Hollywood – non poteva esistere senza la struttura economica che lo sosteneva (nel 2020, dopo averci ripensato, il Diartimento di Giustizia pose fine al decreto Paramount).

Infine, il 1948 fu anche il primo anno completo di applicazione della lista nera di Hollywood, imposta dai dirigenti degli studios dopo che la Commissione per le attività antiamericane della Camera aveva tenuto delle audizioni sulla presunta sovversione comunista a Hollywood nell’ottobre del 1947. Nel 1922, gli “uomini e le donne indesiderabili” di Hollywood dovevano firmare contratti con clausole di moralità; nel 1948, dovevano firmare giuramenti di fedeltà.

Gli assalti della TV, del Dipartimento di Giustizia e dell’HUAC hanno creato un indice di infelicità abbastanza alto da poterlo inserire in qualsiasi lista dei peggiori anni cinematografici di sempre. D’altra parte, al ritmo di Orson Welles, il 1948 è stato anche l’anno in cui sono stati girati Il tesoro della Sierra Madre di John Huston, Il fiume rosso di Howard Hawks e, appena sotto il tiro dell’anticomunismo, La forza del male di Abraham Polansky.

Considerando la prospettiva a lungo termine, il 2023 è, nella migliore delle ipotesi, un candidato mediocre nella corsa al peggior disastro. Certo, il 2024 potrebbe essere peggiore, ma, nello spirito di questo periodo dell’anno, sembra più appropriato augurarsi che – a Hollywood e altrove – il prossimo anno sia l’annus optimus.

Traduzione di Nadia Cazzaniga