La verità di James Mangold sul nuovo Indiana Jones: “Sì, è un film sul tempo e sul mondo che cambia”

Il regista del Quadrante del destino racconta della benedizione di Steven Spielberg, dei retroscena del finale, della scena del trucco con le carte e del potere delle reliquie: "Le avventure di Indy sono sempre un mix mirabolante di aspetti storici, scientifici e fantastici". L'intervista con The Hollywood Reporter

(Questo articolo contiene spoiler su Indiana Jones e il quadrante del destino).

Il quadrante del destino è il dodicesimo film di James Mangold. Ma è stato il suo secondo lungometraggio, Cop Land (1997), a “formarlo” al meglio per affrontare quest’ultimo lavoro. Nel cast di Cop Land c’erano, tra gli altri, Sylvester Stallone, Robert De Niro, Harvey Keitel e Ray Liotta: un’esperienza che ha preparato il regista newyorkese a lavorare con titani dell’industria come Steven Spielberg, Harrison Ford, George Lucas, John Williams, Frank Marshall e Kathleen Kennedy. Mangold si aspettava che alcune di queste star si tirassero indietro. Ma non è successo.

“Uno dei motivi per cui ho accettato il film è che questi giganti della storia del cinema si sono avvicinati a me in modo umano, personale, con affetto e senza pregiudizi”, racconta Mangold a The Hollywood Reporter. “Ero pronto ad altro. Pensavo che sarebbe stato il film più complesso della mia vita, avendo a che fare con delle leggende. Invece mi sono sentito accolto, in famiglia. E alla fine è stato uno dei progetti meno complicati che abbia mai fatto”.

Gran parte del dibattito sul film Il quadrante del destino ruota intorno al sorprendente finale, previsto sin dalle prime fasi della scrittura. Prima che Indiana Jones e la sua figlioccia, Helena Shaw (Phoebe Waller-Bridge), partano nel mondo alla ricerca del quadrante di Archimede, l’Antikythera, troviamo il dottor Jones dietro alla cattedra dell’Hunter College, impegnato in una lezione sul ruolo svolto da Archimede nell’assedio di Siracusa del 213 a.C.. Dopo essersi scontrato con Jürgen Voller (Mads Mikkelsen) per il possesso del quadrante, e dopo che il tedesco aziona l’Antikythera per penetrare una breccia del tempo, Indy ed Helena si ritrovano proprio a Siracusa, nel bel mezzo della battaglia contro i romani.

Un finale ambizioso che secondo Mangold si allinea perfettamente allo spirito dell’intero franchise, che ha già visto l’archeologo confrontarsi con gli spiriti che annientano i nazisti alla fine di Indiana Jones e i Predatori dell’Arca Perduta e con un antico cavaliere del Graal in Indiana Jones e l’Ultima Crociata.

Phoebe Waller-Bridge e Harrison Ford in una scena di Indiana Jones 5 di James Mangold

Phoebe Waller-Bridge e Harrison Ford in Indiana Jones 5 di James Mangold

“I film di Indiana Jones sono sempre stati un mix mirabolante di aspetti storici, scientifici e fantastici. Il mio obiettivo era quello di preparare un grande colpo di scena nel finale, come accade in tutti i capitoli della saga”, dice Mangold. “Volevo che Indiana Jones si trovasse di fronte a qualcosa che mettesse alla prova ciò in cui ha sempre creduto, e che lo tentasse. La vita nel mondo moderno gli sembra ormai così triste che la prospettiva di vivere nella storia è una possibilità che prende seriamente in considerazione”.

Durante una recente conversazione con THR, Mangold ha parlato anche del motivo per cui Helena si oppone al desiderio di Indy di trascorrere i suoi ultimi anni nel passato, e della scena finale tra Indy e Marion (Karen Allen).

Le leggende del cinema fanno un certo effetto sulle persone. Quando ha accettato di prendere il posto di Steven Spielberg, lui come si è comportato? Ha cercato di scoraggiarla o l’ha messa a suo agio?

Nessuna delle due cose. Mi ha accolto con gentilezza. Faceva parte del gruppo di persone che mi hanno contattato per fare il film: l’idea di sostituirlo non mi sarebbe mai passata per la testa, se non mi fossi prima confrontato con lui in privato. Ho capito che avevo la sua benedizione e il suo sostegno. Ne avevo bisogno.

Quando gli ha fatto vedere il film è rimasto fuori dalla sala camminando nervosamente avanti e indietro per due ore e mezza? Era in ansia? 

Steven ha sempre partecipato alla scrittura mia, di Jez Butterworth e di John-Henry Butterworth. Inviavo le pagine del copione a lui, Harrison, Kathy Kennedy e George Lucas, per sentire il parere di tutti. Ho scritto un soggetto originale che ha dato la forma al film: c’era il meccanismo dell’Antikythera, il viaggio nel tempo, un personaggio basato su Wernher von Braun e il programma spaziale. L’ho presentato a Steven e poi, man mano che preparavamo tutto, gli mostravo gli storyboard delle scene d’azione. Quando ero sul set, Steven guardava i giornalieri del girato. Lavorava a Fabelmans, qui negli Stati Uniti, mentre io giravo Indy in Inghilterra. Ci sentivamo. Il fuso orario non è stato mai un problema, perché Steven mi chiamava spesso a colazione, quando io facevo le notti, o nei weekend. Ci confrontavamo almeno una o due volte alla settimana. La prima volta che ha visto il film, era un premontato che superava le tre ore.

È stato difficile avere a che fare con grandi leggende del cinema?

Uno dei motivi per cui ho accettato di fare il film è che questi giganti del cinema si sono avvicinati a me in modo umano, personale, con affetto e senza pregiudizi. Ma ero preparato alle difficoltà. Ero pronto. Pensavo che sarebbe stato il film più complesso della mia vita, avendo a che fare con delle leggende. Per fortuna 27 anni fa avevo girato un film, Cop Land, che mi ha insegnato molto. Era il mio secondo film e nel cast c’erano Sylvester Stallone, Robert De Niro, Harvey Keitel, Ray Liotta e molti altri. Così, sulla carta, sembrerebbe un cast difficile da gestire. Invece, nel corso degli anni, ho imparato che quando giri un film con tante persone famose, tutti diventano uguali. Un po’ come il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dove il potere è diviso in modo equo e tutte le parti sono molto collaborative. Ciascuno era a proprio agio, c’era un grande rispetto reciproco. Mi sono sentito accolto in famiglia. È stato uno dei film meno complicati della mia vita.

È stato impressionante vedervi introdurre l’esibizione dal vivo di John Williams alla prima di Los Angeles. Ha mai pensato che il suo film potrebbe essere la sua ultima colonna sonora? 

No, perché John sta ancora scrivendo musica. John è un compositore vivace e creativo di 91 anni, che ha appena finito di scrivere a matita oltre due ore di musica per il mio film. E poi l’ha diretta con un’orchestra di 300 persone, per un anno. Certamente mi sono sentito onorato, e anche un po’in soggezione, di fronte a lui. Non ci potevo credere. John mi guardava dal podio e diceva: “Proviamo questo? Oppure questo?”. È una delle persone più gentili e affascinanti che conosca. È un musicista jazz. È cresciuto come pianista jazz. È del Queens. Se lo chiami, ti risponde: “Ehi, tesoro”. È un uomo dal fascino disarmante, senza pretese da “maestro”. 

La vita è piena di alti e bassi. Anche gli eroi come Indy li hanno, eppure una parte del pubblico sembra volerli sempre infallibili. Perché?

A un certo punto questi personaggi diventano simboli. E ci si preoccupa di mostrarne il lato più umano, come se potesse indebolirne lo status di eroe. Onestamente, non so come la prenderanno i fan. Voglio dire, un buon film drammatico pone all’eroe un problema da affrontare. Se un film parla di un eroe bellissimo, capace di tutto, virtualmente indistruttibile e senza preoccupazioni personali, non è un film, ma un videoclip fashion con un po’ di azione. A me piace che un personaggio parta da un punto per arrivare a un altro. Quello del personaggio di Harrison è un arco, che si trasforma per tutta la durata del film. 

A un certo punto, nel film, Harrison sembra citare il suo ruolo ne Il fuggitivo, quello del dottor Richard Kimble (ne Il quadrante del destino, Indiana Jones in fuga si alza il colletto della giacca proprio come faceva Kimble, ndr). Ne avete parlato? Vi siete fatti una risata?

A metà della storia Harrison ha deciso di togliersi la giacca: mi preoccupavo piuttosto che il film potesse somigliare a Sotto il segno del pericolo. Apriamo con una sequenza di 20 minuti ambientati nel 1944, in cui ho cercato di riprodurre “l’età dell’oro” di Indy, quando tutti gli elementi della sua tavolozza erano perfettamente armonizzati: la colonna sonora di John Williams, le scene d’azione al cardiopalma, la virilità e il carisma della star, le luci e i colori, il borsalino e i nazisti in piena guerra. John ha lasciato che l’orchestra si scatenasse liberamente, dandole carta bianca. Ma il momento più bello per me è quando passiamo al 1969 e ritroviamo Indy, ormai settantenne, nel suo appartamento di New York. La grande domanda che il film pone al pubblico è: “Come siamo arrivati da lì a qui? Cosa è successo?”. L’altro aspetto che si ricollega a Richard Kimble è l’idea, concordata con John, che l’intero tema di Indy non venisse eseguito all’inizio del film. Ho pensato che nel 1969, quando ritroviamo un Indy che ha perso la sua magia, lasciarlo “senza tema” fosse un modo per sottolineare il suo decadimento. John ha iniziato subito a scrivere la colonna sonora, volevo che fosse qualcosa anni ’70, alla I tre giorni del Condor. Quando poi Indy arriva in Marocco e si mette il cappello, ecco che ritorna il suo tema. 

C’è un famoso video di David Blaine che fa un trucco di magia con le carte a Harrison nella sua cucina. È stato d’ispirazione per la scena del trucco con le carte di Helena (Phoebe Waller-Bridge) sulla barca?

In realtà non l’ho mai visto. La scena del trucco con le carte si ispira a Barbara Stanwyck in Lady Eve di Preston Sturges. Prima ancora di scrivere la sceneggiatura, volevo avere Phoebe nel film. Per me era una perfetta Stanwyck, o Kate Hepburn, in epoca moderna. Phoebe è una donna assolutamente contemporanea, ma in un certo senso c’è un certo sapore antico nel modo con cui gestisce i dialoghi, nel suo stile comico. Mi ricorda le eroine della Golden Age degli anni ’30 e ’40.

Come hanno reagito al viaggio nel tempo i produttori?

Io non l’ho mai presentato come un viaggio nel tempo. Non ho mai pensato che fosse un viaggio nel tempo. La stampa attribuisce ai film delle etichette, che in qualche modo aiutano il pubblico a comprendere il film. Abbiamo lavorato per tre anni alla sequenza d’apertura, e solo negli ultimi 30 giorni la gente ha iniziato a chiamarla “sequenza di IA all’inizio di Indiana Jones”. Anche se alla fine del film i personaggi attraversano un portale nel tempo, il film non parla di viaggi nel tempo. Parla del tempo, dell’invecchiamento, del mondo che cambia intorno a noi. Da quando esistono i film di Indiana Jones, il potere delle reliquie è sempre indissolubilmente legato al tema del film stesso. Qualcuno forse oggi direbbe che I predatori dell’arca perduta è un film sulle profezie bibliche. No, è solo un film in cui qualcuno apre un’arca che contiene delle reliquie cristiane, ne escono degli spiriti e si aprono i cieli: ma non è un film religioso. Il dialogo è sempre tra un eroe laico guidato dalla scienza, che vive in un mondo fatto di libri e di storia, e un universo di cose che vanno al di là dell’immaginazione. Miracoli di ogni tipo: un cavaliere della Tavola Rotonda che vive per 2000 anni in una caverna, guerrieri voodoo che strappano il cuore dal petto della gente ed evocano zombie, o un’Arca dell’Alleanza che fa esplodere la testa di chi la guarda. I film di Indiana Jones sono un mix mirabolante di aspetti storici, scientifici e fantastici. Il mio obiettivo era quello di preparare un grande colpo di scena nel finale, come accade in tutti i capitoli della saga. Volevo che Indy si trovasse di fronte a qualcosa che mettesse alla prova ciò in cui ha sempre creduto, e che lo tentasse. La vita nel mondo moderno gli sembra ormai così triste che la prospettiva di vivere nella storia è una possibilità che prende seriamente in considerazione.

Harrison Ford ringiovanito in CGI per Indiana Jones 5

Harrison Ford ringiovanito in CGI per Indiana Jones 5

Helena si oppone con forza alla tentazione di rimanere nel passato. Perché insiste tanto perché torni nel 1969?

Perché lo ama e ha bisogno di un padre. Ha bisogno di lui. C’è un padre che ha perso un figlio, e una figlia che ha perso un padre. Ed entrambi si sono persi nel mondo. Helena per cinismo, Indy per una sorta di malessere dovuto al sentirsi vecchio. Hanno un disperato bisogno l’uno dell’altra, pur litigando per la maggior parte del film. Io non ho mai considerato Helena come una donna priva di sentimenti. L’ho sempre immaginata ferita dal fatto che Indy fosse sparito dalla sua vita proprio quando avrebbe avuto bisogno di qualcuno come lui al suo fianco. Lei dice: “Ma che senso ha la parola ‘padrino’?”, eppure è l’immagine esatta di una che ha bisogno di un padrino. Suo padre è morto quando era giovane e il padrino non è mai arrivato. Il film permette al suo “padrino” di mettersi di nuovo alla prova e, a modo suo, di superare il dolore del lutto.

Per quanto riguarda la scena finale, avete pensato subito all’omaggio alla scena del “bacio alla ferita” de I Predatori?

Sì. L’idea è stata di Jez e John Henry (Butterworth). Ci hanno pensato immediatamente, appena gli abbiamo detto che Marion alla fine sarebbe tornata. Ed è stato geniale. L’abbiamo girata quasi subito, perché le scene di Karen erano tutte nel secondo o terzo mese di produzione. Karen è arrivata sul set e ha lavorato per due giorni. È atterrata e si è presentata. La chimica tra lei e Harrison è stata immediata. Si vede che il rapporto fra loro si è costruito ed è maturato nel corso degli anni.